NESPOLO E IL CAPITALE COME OPERA D'ARTE TOTALE
IL CONTRATTUALE NELL'ARTE
Il 15 maggio 1871 Arthur Rimbaud indirizzava a Paul Demeny la cosiddetta "lettera del veggente": il poeta è un sapiente e un profeta che scruta la realtà profonda delle cose.
Se qualcuno fosse stato tentato di trovare esagerate le critiche di Platone nei confronti dei poeti (i poeti mentono troppo, i poeti non sanno quel che dicono, i poeti pretendono di insegnare a condurre gli eserciti e a governare le navi, ma non hanno mai fatto né l'una né l'altra cosa), questa lettera le giustificherebbe tutte a sazietà . Un ragazzo di 17 anni pretende di spiegare il mondo attraverso l'arte.
Difficile non cogliere il patetico disaccordo tra l'ampiezza dell'ambizione e la modestia delle prove: da una parte, la promessa della rivelazione degli arcani del mondo; dall'altra (e mi limito ai casi maggiori e universalmente acclamati) una signora con un sorriso enigmatico, o una malmaritata che muore suicida, o una sinfonia che inizia con ta ta ta tan...
Questa impressione sembra rafforzata se da forme di arte classica o romantica veniamo all'arte del Novecento. In che misura la riproduzione in legno di una scatola di pagliette per lucidare le pentole darebbe occasione di pensare molto? Di quale idea sarebbe riproduzione sensibile un orinatoio? Di che mondo sarebbero esposizione?
Bene, per strano che possa sembrare, l'arte di avanguardia sa rispondere a queste domande meglio di quanto non accadesse all'arte classica e romantica. In fondo, Leonardo, Flaubert o Beethoven non avevano bisogno di rispondere a interrogativi filosofici, bastava a loro produrre un'opera che nessuna macchina avrebbe mai potuto realizzare. Un'opera che, sperabilmente, piaceva al pubblico e veniva giudicata bella.
A un certo punto, però, la macchina entra in scena, o meglio esce dal mulino, dal telaio, dal laboratorio ed entra nella vita di tutti, e soprattutto incomincia a rendere obsoleto il fatto a mano. In particolare, a metà dell'Ottocento viene inventata la fotografia, e da quel momento i pittori si chiedono cosa ci stanno a fare. Ognuno ha la sua strategia. C'è chi dice che dipinge non ciò che c'è, ma le sue impressioni. C'è chi dipinge cose che non si vedono nel mondo, e dunque non si possono fotografare, perché sono astrazioni. C'è chi mette un orinatoio nella galleria.
Sembra la fine, e invece è l'alba di un nuovo giorno, che vale non solo per la pittura ma - questa la novità - si estende a ogni forma d'arte, e poi al mondo sociale in generale e all'industria, dove le attività ripetitive toccano alle macchine, e agli umani vien chiesto di comportarsi come artisti. Scandire le fasi di questa trasformazione significa rievocare in venti minuti un secolo di storia dell'arte, che è una prodezza futile rispetto al miracolo che ha fatto Nespolo, che li ha incarnati, ricreati e rinnovati in mezzo secolo di creattività (con due t, e spiegherò alla fine il motivo di questo grossolano errore di ortografia).
FOUNTAIN. LA ROTTURA
Nel 1917 Duchamp espone un orinatoio e dichiara che è un'opera d'arte, intitolata Fountain e firmata R. Mutt. L'attitudine ostentata è di non cercare la bellezza, anzi di evitare come la peste l'"arte retinica", il piacere visivo, proprio come Marinetti evitava il chiaro di luna. L'artista ha ben altro da fare che "inseguire il bello in tutte le sue forme", sono scemenze che possiamo lasciare al Barone di
Charlus o agli arredi della Capponcina. Si tratta, spiega Duchamp, di "creare un nuovo pensiero per quell'oggetto", cioè per l'orinatoio. Ma quale concetto, di grazia? In effetti, più che di un concetto, che con tutta la buona volontà non ci riesce di trovare (e visto che sono passati centodue anni temo non lo si troverà mai) si tratta di stilare un nuovo contratto con il fruitore, cui si chiede molta pazienza, la stessa che chiedo a voi ora.
Articolo 1. Qualunque cosa può essere opera
Se metti un orinatoio in una galleria, e dici che è un'opera, e ti credono, allora qualunque cosa può essere un'opera. E ho detto tutto.
Articolo 2. Le belle arti non sono più belle
Pressappoco nel Settecento si incomincia a isolare, all'interno delle arti, cioè delle tecniche, un sottoinsieme identificato dalla bellezza e unificato - sosteneva Batteux nel 1746 e questa è la magagna che farà esplodere il sistema di lì a un secolo, con la fotografia - dalla imitazione. Una volta che ci siamo persi l'imitazione, o meglio l'abbiamo appaltata ai fotografi, che bisogno c'è di tenersi la bellezza? Post hoc, ergo propter hoc: nel 1839 viene inventato il dagherrotipo e nel 1853 Rosenkranz pubblica l'Estetica del brutto.
Non è detto che sia un male, e c'è in tutto questo anche un effetto liberatorio, da Corazzata Potemkin. Sei stufo di dover manifestare una devozione estetica che non ti appartiene guardando Monna Lisa? Non preoccuparti, disegnale dei baffi, e sarai salvato grazie all'intervento della Grande Arte Concettuale. Non ne puoi più di opere che si struggono per essere belle e sono volgari o ordinarie? Anche qui, non preoccuparti: prendi un orinatoio, o uno scolabottiglie (curioso strumento, d'altra parte) o una ruota di bicicletta, lo esponi in un ambiente adatto (galleria, museo), gli dai un titolo e lo firmi, e lì realizzi la meravigliosa transustanziazione per cui un oggetto comune diventa un'opera d'arte.
In tutto questo, schivare la bellezza applicando il dogma della indifferenza estetica è centrale, per evitare che qualche incompetente possa pensare che il miracolo dipenda dall'azione di proprietà estetiche, e non dall'invenzione concettuale.
Articolo 3. Gli insoddisfatti non saranno rimborsati
Anzi, saranno puniti e censurati. Non sanno stare al gioco. Questa parte del contratto passa sovente inosservata, ma non è meno caratteristica del qualunquismo (la tesi per cui qualunque cosa può essere arte) e dell'anestetismo (la tesi per cui l'arte non ha bisogno di essere bella).
Dei progetti dei mattoidi per il Vittoriano Carlo Dossi poteva tranquillamente ridere, mentre di fronte all'orinatoio (anzi, all'orinatorio, all'idolo di una preghiera assorta) oggi bisogna stare serissimi e pensosi come bambini modello in una gita scolastica, e se si prova a comportarsi altrimenti si fa la fine di Franti, che in Cuore è definito "infame" perché sogghigna quando il maestro racconta dei funerali di re Umberto.
BRILLO. LA RICONCILIAZIONE
Quanto poteva durare? Non molto, anche perché nel frattempo il mondo continuava a traboccare di auto e persone bellissime, di cibi sceltissimi, e, grazie alla grande distribuzione, incominciava a popolarsi di confezioni attraenti per le merci più varie. Ritiratosi dalle gallerie, il bello riappare nei supermercati.
Lo vede benissimo Andy Warhol, che nel 1964 espone una scatola di pagliette d'acciaio Brillo (un prodotto della Procter & Gamble), più grande e in compensato. La continuità con l'orinatoio è solo apparente. Brillo non è stato trovato e rovesciato, ma fabbricato apposta; dentro non ci sono le pagliette; è di materia e dimensioni diverse rispetto all'originale.
Soprattutto, è un bell'oggetto. Chi l'aveva disegnata e che, per inciso, era anche un artista in proprio, l'espressionista astratto James Harvey, la voleva bella, altrimenti Procter & Gamble non lo avrebbe pagato proprio come il Papa non avrebbe pagato Bernini se il colonnato lo avesse scontentato.
Articolo 1. L'occhio vuole la sua parte
I cuochi che sbagliano la cottura e gli allenatori che perdono tre partite di fila sono licenziati; di un film o di un romanzo è lecito dire che sono brutti; e purtroppo anche le persone possono essere brutte o belle, gli specchi ce lo dicono con particolare crudeltà .
Perché dovremmo concedere a una classe di oggetti la peculiare immunità dell'indifferenza estetica? Non diversamente da un pittore della tradizione, ed esattamente come un designer della Apple, Warhol cerca la bellezza. In gran parte la trova già fatta, nei supermercati o al cinema, e si limita a cambiare qualcosa, per esempio ingrandendo (cioè, letteralmente, magnificando) la zuppa o le pagliette, o tinteggiando la dea. Ma la Marilyn su fondo oro non è la Gioconda con i baffi: è divinizzata, non ironizzata.
Articolo 2. Non ogni cosa può essere un'opera
Fountain suggeriva che qualunque cosa può essere un'opera. Ma Brillo ci ricorda che l'opera è anzitutto una cosa, né troppo grande né troppo piccola. Una di quelle cose che si trovano al supermercato, proprio come, del resto, i cugini non trasfigurati di Fountain si trovano nei negozi di sanitari.
Articolo 3. La cosa è anzitutto una merce
Supermercati, negozi di sanitari, gallerie. Dov'è la differenza? Per rispondere alla domanda "che cosa è una cosa?" il John Austin diceva che è un articolo da emporio di modeste dimensioni. Non si poteva dir meglio: l'opera è cosa e la cosa è per lo più merce, identificata da tre processi che riassumo con tre B.
Beautification. L'opera deve essere bella, altrimenti nessuno la compra.
Beatification. Marx ha scritto che le merci sono feticci che ci conducono nella "regione nebulosa del mondo religioso". Dicendo che i centri commerciali sono le basiliche contemporanee e definendo certe merci come doverose (must) e cultuali (cult), si dice una cosa giustissima. In effetti, se si è sentita più di una volta la necessità di scacciare i mercanti dal tempio è, banalmente, perché il tempio è un mercato in cui si commerciano asset intangibili; e il mercato è un tempio, come ci insegnano le facciate neoclassiche delle borse.
Brandification. Brillo trae le fila di una vicenda che risale almeno al 1812, quando, nel suo resoconto della catastrofe della Grande Armée, Joseph de Maistre ricorda che i cosacchi si rivendevano orologi Breguet razziati ai francesi, e al 1838, quando suo fratello Xavier, nel Filosofo dell'Odenwald, ci parla di un "meraviglioso orologio Breguet d'oro". Una mania di famiglia? No, un segno d'epoca. C'è un momento in cui la marca, frutto di industrializzazione, entra nella storia e nell'arte: la birra Porter nella Montagna incantata, la penna Waterman nella Cognizione del dolore, Ezra Pound chiamato da Hemingway "Stetson" per via del cappello a larga tesa, le scarpe Rossetti in Thomas Bernhard, il "di marca" come apprezzamento merceologico e quasi-estetico, come santità secolarizzata o nobiltà borghesizzata, le marche delle automobili un po' dovunque.
Lo stile era il segno caratteristico dell'artista, il marchio dell'operaio nella sua opera (come scrive Cartesio parlando dell'idea di infinito che sarebbe, in noi, la firma di Dio). Ma quando l'industria incomincia a produrre in serie si fa avanti la marca, il brand, che contraddistingue non più l'individuo ma la specie. E non c'è nulla di sorprendente che l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica trovi nel brand della merce il sostituto della firma dell'artista.
MOLESKINE. LA FUSIONE
Facciamo un salto di trent'anni. Concepito nel 1997 da una azienda milanese, Moleskine è anzitutto un taccuino che viene commercializzato nel momento in cui a rigore la diffusione dei computer renderebbe inutile la manoscrittura; il modello non ha alcuna originalità e anzi punta sull'aura tradizionale che viene costruita intorno a taccuini che sarebbero stati usati da Bruce Chatwin e da Hemingway; inoltre, non ha speciali caratteristiche qualitative, visto se si scrive con la stilografica l'inchiostro passa dall'altra parte.
Malgrado questo, Moleskine è diventato un brand universalmente diffuso (c'è in tutti gli aeroporti e in molte stazioni, non c'è università americana che non abbia una moleskine personalizzata, ecc.). Poi è evoluta creando un sistema, per trasmissione o emanazione, di penne, taccuini personalizzati, astucci, zaini, borse, ossia si è trasformata in un progetto di vita.
Siamo usciti dall'arte e stiamo parlando d'altro? Alcuni direbbero di sì. Io, e sono persuaso che Nespolo sia della mia idea, credo invece che abbiamo a che fare con una terza forma di rinegoziazione del contratto. Personalmente lo considero anche più ingegnoso di quello stilato da Duchamp, ancora grondante di romanticismo (l'artista come trasfiguratore della cosa che per incanto diviene Opera), ed è per questo che mi stupisco che (succede) la stessa persona possa sostare pensosa di fronte a Fountain e poi manifestare contro Burger King.
Articolo 1. L'oggetto non basta, ci vuole il design
Da qualche decennio ciò che con un anacronismo che fa riflettere si chiama "manifattura" si confronta con il problema che assillava i pittori nell'Ottocento. Che fare quando il duro lavoro (della riproduzione per i pittori, della produzione per la manifattura) non è più fatto a mano, ma a macchina, e la macchina lavora da sola affidando alle palestre il compito di smaltire le calorie in eccesso?
Si punta sul design. Che però non è principalmente l'ideazione di forme esteticamente belle anche a scapito della funzionalità (alla faccia della indifferenza estetica). Intorno allo spremiagrumi-ragno e al bollitore cinguettante incombe sempre il rischio di un grottesco che evoca un mondo di capitelli in ghisa, di termosifoni rococò, di L'art industriel, il giornale diretto da quel cretino del marito di Madame Arnoux. Tanto vale, allora, Fountain, e ci togliamo la paura.
Il design che conta consiste nel prendere un oggetto la cui produzione è delocalizzata, automatizzata, e la cui funzione è sostanzialmente inutile, appunto come nel caso di Moleskine, e "creare un nuovo pensiero per quell'oggetto". Non era questo il progetto di Duchamp? Solo che adesso permea di sé il mondo. Davvero Duchamp è stato un veggente, solo che la sua profezia riguardava anzitutto l'industria.
"I consumatori non sanno ciò di cui hanno bisogno", diceva Steve Jobs a un giornalista che gli chiedeva perché non avesse fatto ricerche di mercato prima di concepire l'iPhone. In effetti, nulla è più ordinario di uno smartphone, oggi, e nulla è stato più anticipatore, giacché ha colto un bisogno non ancora compreso, la delineazione di una forma di vita che è quella nostra, oggi, nella rivoluzione documediale, nella esplosione di documenti e di messaggi che caratterizza l'età del web.
Oggi le merci sono trattate come documenti, come progetti (si pensi alla manifattura 3D) e i documenti diventano la merce fondamentale (si pensi ai Big Data); cade la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, visto che il modesto lavoro manuale che ci accomuna tutti è digitare su una tastiera; la differenza fra tempo della vita e tempo del lavoro vien meno e trasforma la vita di chiunque in quella di un artista, che lo voglia o no (una volta erano i pittori a lavorare la domenica, oggi qualche mail domenicale non si nega a nessuno, e comunque navigando sul web produciamo valore, ossia lavoriamo).
à questo il mondo in cui, come leggiamo nei libri sul web, la differenza tra il valore contabile e il valore di borsa di un'azienda è determinato dagli "asset intangibili", ossia (spiegano), "il brand, il talento e la strategia".
Articolo 2. L'artista è un creattivo (con due t)
Qui viene il difficile. Perché cosa sia il brand lo abbiamo appena visto. Che cosa sia il talento lo immaginiamo, è qualcosa come il genio, solo un po' più pratico e senza eccessi autodistruttivi. Ma la strategia che sarà mai? Certo non è qualcosa di puramente immateriale, visto che Hitler è stato salvato nell'attentato a Rastenburg proprio dal pesantissimo tavolo coperto di carte su cui si elaboravano i piani strategici della Wehrmacht.
Ma, tolto il legno e la carta, la strategia che crea un nuovo pensiero per un oggetto è forse pura ispirazione senza traspirazione, o qualcosa rispetto a cui l'oggetto è indifferente, un puro spunto o pretesto? Nel caso di Duchamp a volte si penserebbe di sì. In quello di Nespolo, di Warhol e di Moleskine certamente no. E nemmeno in quello di uno che di strategia un po' se ne intendeva, Helmuth von Moltke, l'artefice del trionfo prussiano del 1870, e che nel 1871, proprio nell'anno della Lettera del veggente, in Della strategia, la definiva come un "sistema di espedienti" (System von Aushilfen). E aggiungeva: "Solo i profani intravedono nello svolgimento di una campagna la coerente esecuzione di un'idea originale, in precedenza elaborata in tutti i dettagli dal comandante e al quale è rimasto fedele fino alla fine".
Il creativo è un creattivo, con tue t: crea solo reagendo, a contatto con l'attrito del reale, ossia pratica ciò che un grande maestro dell'estetica torinese, Luigi Pareyson ha definito "formatività ": il fare artistico trova le proprie regole in corso d'opera e a confronto con l'opera. Non c'è spirito senza lettera. L'oggetto e l'apparato tecnico non sono mai estrinseci, e anzi sono l'occasione da cui emerge il "sistema di espedienti" di Moltke. O la zeppa, il momento in apparenza morto e strumentale che può trasformarsi in arte, in barba all'intuizione pura di Benedetto Croce (ma se è per questo di tanti
elogi manageriali della creatività come dono degli dèi). La zeppa che intitola un paragrafo dell'Estetica di Pareyson e a cui ha dedicato un memorabile saggio un altro nostro laureato honoris causa, Umberto Eco. Lo faceva per ricordare Luigi Pareyson da poco morto; lo cito ora per ricordare Eco, che ci ha lasciati da tre anni.
Articolo 3. Nespolo è il creattivo per eccellenza
Torniamo a noi. Dopo questo prolisso preludio avremo il ludus vero e proprio, la lectio del nostro addottorato. Che non solo (lo vedrete o rivedrete) ha riassunto in sé, tra arte povera e pop, un secolo di avanguardia, ma soprattutto, e sin dall'inizio, ha inserito, per così dire, Duchamp e Warhol nell'orizzonte di Moleskine, con una funzione anticipatrice che non ha uguali. Tranne, forse, Alphonse Mucha. Con una differenza fondamentale, che vorrei suggerirvi mentre chiudo.
Mucha, creattivo quasi quanto Nespolo, riempiva di volute liberty i suoi disegni che sono stati veramente dappertutto, comprese (e questo forse manca a Nespolo ma, ne sono certo, ci arriverà ) le banconote cecoslovacche. Ma, appunto, voleva aggiungere tutte quelle volute per conferire individualità alla sua opera. Era convinto insomma che i mass media e la produzione di massa (per non parlare della globalizzazione, che sarebbe arrivata molto dopo) avrebbe omologato, reso tutto uguale.
à successo esattamente il contrario: non siamo mai stati così diversi, così individuali (anche troppo) quanto nell'epoca della globalizzazione e della pretesa massificazione. Di questa meravigliosa molteplicità e individualità Nespolo è stato ed è il felice e convinto poeta (anche nel senso etimologico del "fare", del "produrre"). Ed è per questo che sono stato felice dell'occasione che mi è stata offerta di esserne il convintissimo esegeta.
(Dal catalogo della Mostra NESPOLO FUORI DAL CORO, Palazzo Reale, Milano, dal 6 luglio al 15 settembre 2019, Catalogo Skira)