ARTISTA Antologia Gianni Vattimo

Gianni Vattimo

L'Opera: un modo di vivere l'esperienza della mortalità

G.V. Quello che, devo dire, mi colpisce sempre e che - secondo me - qualifica il tuo lavoro e la tua immagine rispetto a quella di altri artisti (quelli che io conosco e che non sono certo tutti quanti al mondo) è l'evidenza di una maestria compositiva, persino manuale. Ad esempio le tarsie e le sculture in legno modellato e dipinto che sono per lo più l'oggetto di questa mostra di Palazzo Reale di Milano, mi sembrano particolarmente impressive. Mi pare che questa sia una condizione di controcorrente notevole, pensando intanto, e senza generalizzare però, che uno dei tratti dominanti dell'arte contemporanea sembra essere una sorta di predominio dell'invenzione sull'esecuzione. Si ha l'impressione che l'opera si identifichi come dichiarazione di poetica, addirittura, che viene ripetuta modulata e dove almeno noi profani - ci tengo a dirlo - non vediamo granché. Penso ad esempio all'inimitabilità.
Mi sono sempre domandato - e lo dico sapendo che è parzialmente falso - se davvero si può distinguere tra un Fontana vero e uno falso, un Buren vero e uno fatto in casa, per eccesso persino un Mondrian ti dà l'idea che siano forme "do it yourself".
Ci sono, ora, certamente delle tecniche d'indagine per distinguere l'autentico dal fasullo, tuttavia mi pare che per lo più nell'arte contemporanea si debba cercare di colpire con un gesto stilistico (che non è necessariamente maestria dell'esecuzione), qualcosa che rasenta addirittura l'idea del brevetto.

U.N. Tutto il mio lavoro è certamente ammantato di abilità tecnica che però io non considero mai fine a se stessa ma che pretendo di ritenere invece strumentale al "pensiero" che sta sotto.

G.V. Sì, quello che tu fai però mi spiazza. L'imponenza dell'esecuzione è - secondo me - uno dei tratti che ti qualificano, che ti distinguono e che paiono costituire, per uno che provenga come me da un'esperienza intensamente ideologica dell'arte contemporanea, una sorta di limite. Limite che io poi personalmente, non ho difficoltà a confessare, ho superato con i discorsi sul postmoderno. Mi è parso, cioè, che tutta la carica ironica di contestazione delle forme visibili e anche delle istituzioni tradizionali (tra cui la maestria dell'esecuzione che caratterizzava l'arte moderna) fosse per qualche ragione - che ora credo sia per me molto teoricamente connotata - superata.

U.N. Mi pare che tu stia parlando di ironia, di quella scappatoia che io uso costantemente per accedere senza precipitare anche al mondo delle forme già "note", persino alla sfera del "tradizionale", con il trucco della "citazione".

G.V. Diciamo che questo atteggiamento ironico della modernità, cioè un atteggiamento di continua allusione a un altro modo di accedere alle essenze, è talmente "altro" che naturalmente si può esprimere solo negativamente: il Silenzio di Beckett secondo Adorno eccetera. Posso dire di essere ridiventato capace di apprezzare il tuo lavoro, credo soltanto con questa specie di liberazione postmoderna del recupero delle forme, anche tradizionali, anche se - devo dire - non c'è molto di tradizionale nella tua opera ma, rispetto alla "purezza" di certo concettualismo degli anni Sessanta, siamo in una situazione di pre-postmodernità.
Tu potresti, con buona ragione, rivendicare una sensibilità postmoderna in tempi in cui ancora predominava un avanguardismo di tipo modernistico.

U.N. Ti parrà assurdo, ma questo del rivendicare appartenenze ideali a gruppi, movimenti o semplicemente tendenze del gusto a venire sembra un poco il mio destino. A metà degli anni Sessanta, in una mostra fatta alla Galleria Schwarz a Milano, presentavo un certo numero di lavori decisamente protoconcettuali - come rimarcavano alcuni critici come Tommaso Trini e Lea Vergine -, tant'è vero che poi ho fatto parte del nucleo di artisti dell'arte povera e con loro ho partecipato a varie mostre in Italia, come ad esempio Il percorso a Roma, fatta da Germano Celant prima della ufficializzazione dell'arte povera. Sin da allora però - insofferenza per i gruppi guidati a parte - ho pilotato il mio lavoro verso una maggior cura esecutiva, un'innata voglia di "ben fatto"...

G.V. Sì, vicino a questo elemento - diciamo - manuale, esecutivo, mi colpisce ancora una volta nelle tue cose un tratto psicologico, diciamo una sorta di atteggiamento interiore.
Non ci sarebbe, come dire, questa esecuzione accurata se non ci fosse un atteggiamento complessivamente affettuoso nei confronti degli oggetti. Anche questo mi pare molto significativo dal momento che, ritengo, in certi stili formali non si può che fare un'arte apocalittica.
Ad esempio, io non conosco un'opera buffa dodecafonica, forse non ce ne sono addirittura o comunque non sono tra le più eseguite. In genere un'opera dodecafonica è un'opera che possiamo immaginare riferita ai campi di concentramento, o comunque riferita al dramma tragico dell'uomo contemporaneo. Un'opera buffa la immagino di Rossini o di un autore rossiniano. Ora, in qualche modo, in un atteggiamento avanguardistico è difficile che si manifesti un rapporto psicologicamente in qualche senso positivo, di disponibilità, nei confronti del reale. Anche perché il reale, nella prospettiva ironica dell'avanguardia, è sempre un reale falso, un reale dimidiato, diminuito, un'apparenza che bisogna trascendere.
Nel tuo caso invece mi piace talvolta riconoscere anche delle tracce di realtà, di "cose".

U.N. Amo usare il magazzino delle arti come fonte d'ispirazione, diciamo così; e anche "il reale intorno"...

G.V. Sei tu che me lo dici che ci sono talvolta cose che ricordi da viaggi; che ci sono gli "omini", quasi quelli a cui una certa avanguardia ci aveva abituato (il primo Klee, Kandinsky ecc.). E c'è di più. Noto una specie di ritorno a "forme semplificate" trattate con un atteggiamento - come dire - non di violenta ricerca dell'essenziale ma di affettuoso avvolgimento delle cose che in questa prospettiva perdono i caratteri monumentali e ne acquistano altri. Questi sono dei caratteri non essenziali nel senso delle essenze metafisiche bensì caratteri di vivibilità, di frequentabilità. Il tuo è un mondo relativamente più frequentabile che quello di altra pittura.
Questo mi pare importante perché forse è una delle poche idee che io, adesso, credo di avere sull'esperienza estetica. Dopo avere insegnato estetica per tanti anni ho fatto un'opera di semplificazione e di purificazione. Una delle poche idee che credo di avere sull'esperienza estetica finisce per essere l'idea dell'abitabilità di un mondo, vale a dire l'idea in senso largamente positivodecorativa dell'arte: della costruzione del décor come scenografia dell'ambito in cui la vita si svolge. Allora, certamente, questo credo sia un recupero (postmoderno anch'esso) di certe poetiche tradizionali in quanto l'abitabilità non era il principale obiettivo dell'avanguardia. Se mai il principale obiettivo dell'avanguardia era lo "spaesamento", che mi sembra anche fondamentale per l'esperienza ma che ormai, per una quantità di ragioni che hanno da fare con tutte le ragioni teoriche dell'affermarsi della postmodernità, non è più quello che noi cerchiamo. Cerchiamo di più una forma di abitabilità.
Chissà se si potrebbe sostenere che non siamo tanto in una età neobarocca, come ha detto Omar Calabrese, ma che siamo - secondo me - in un'età neorococò, anche se mi rendo conto che questo è quasi scandaloso. Voglio dire che tutto l'elemento tragico che c'era nel barocco, su cui ha costruito il suo saggio Benjamin e su cui ha vissuto un certo benjaminismo estetico degli ultimi decenni, finisce per essere incluso e in qualche modo addolcito dentro una prospettiva non tanto di trompel'œil, come potrebbe immaginarsi pensando al rococò, alle rocailles, quanto una prospettiva di delicatezza come, ad esempio, il teatro di corte di Monaco. Sì, forse proprio Monaco di Baviera è la città che esprime di più questo concetto. Mi rendo conto che a Monaco c'è nato anche il nazismo, ma questo è un problema che il neorococò non si potrebbe porre. Non si può attribuire a una città la responsabilità di tutto quello che vi è accaduto. Non voglio dire che ci sia una "dimenticanza" del tragico, bensì un trascendimento del tragico in una dimensione discorsiva, costruttiva, che per poter costruire e discorrere ha anche bisogno di prendere le distanze, di formalizzare in qualche modo. Io so abbastanza poco dell'arte rococò, storicamente, ma mi interessa lo spirito.
Persino la popolarità di Mozart nella nostra cultura, più che della sua musica, è forse di Mozart come figura, non il Mozart di Amadeus ma quello di Pupi Avati, una sorta di anti-Amadeus di tipo più intimamente rococò nel senso che dicevo prima. Non il grande tragico che alla fine dell'opera, alla fine del Don Giovanni, fa apparire la statua del commendatore, ma veramente, invece, il compositore della musica che nasconde il tragico in una perfezione formale, coltivata e praticata affettuosamente e quindi non in una perfezione formale superficiale.

U.N. Il tuo discorso mi pare davvero calzante al mio modo di operare. Molti di coloro che hanno scritto del mio lavoro si sono soffermati a mettere in evidenza più (o esclusivamente) le componenti di "assenza del tragico", se vuoi, per evidenziare gli aspetti conclusivi del "ben fatto", del ben rifinito o addirittura del "ben progettato". Io ho sempre rivendicato un elemento "doloroso" nel presunto gioco "educato", un tentativo di superamento dell'impossibilità della creazione (in senso manierista) che si rende conto della barriera enorme e quasi insuperabile della creazione del "nuovo", da un lato. Dall'altro ho coltivato una sorta di perenne insofferenza ai dettami della creazione obbligata e che sta nei ranghi dei dettami del gusto artificiale. Se ci pensi, deve pur esserci una sorta di tragicità anche nel "gioco" che io ho sempre messo in atto di portare un elemento di dubbio ironico alla "modernità" così come risulta nelle esibizioni museali elaborando immagini in cui risultano, ridotte a figurine, le sale (più o meno immaginarie) dei musei con le loro opere.

G.V. Io sono condizionato dalle aspettative. Cerco ora di ricordarmi le ragioni per le quali ho sempre considerato le tue opere in maniera diversa da quella in cui le considero oggi e di domandarmi perché oggi mi appaiono in questa diversa luce. Le cose che ti attribuisco - non tanto arbitrariamente, se non ti sembrano scandalose - sono anche il risultato del fatto che tu abbia prodotto opere di questo tipo. Credimi, non è che io adesso vada in cerca, con te, di qualcuno che possa sembrare un pittore adatto a questa Stimmung, a questo atteggiamento spirituale, è semplicemente che ci sono dei destini delle opere e quindi ho l'impressione che davvero in esse si possa leggere tutto questo. Si potrebbe poi discutere se e fino a che punto non ci sia soltanto, come dire, la superficie di un buon artificio, di una buona costruzione e ci sia invece qualche ricordo in più, qualche elemento di tragicità inclusa, non ignorata, ma neanche ironicamente trascesa, semplicemente, affettuosamente compresa almeno come elemento di vita.

U.N. Ci sono nei miei lavori, come vedi, elementi di vita quasi ridotti allo stato di "figurine".

G.V. Sai, la riduzione degli elementi reali a figurine non è soltanto una schematizzazione ludica. Può essere letta innanzitutto come la percezione dell'oggetto allo stato di traccia, se vuoi, di residuo. Quando tu intitoli una serie di quadri Musei, credo ti renda conto che nel museo non sta soltanto l'arte da cui vuoi ironicamente prendere le distanze, ma nel museo c'è anche l'insieme dei "monumenti" della nostra tradizione che diventano oggetto - in te di rifigurazione non soltanto giocherellona. Prendiamo uno di questi Musei che esponi a Milano. È molto interessante la messa in distanza di questa quadreria ripresa, ripensata, e proprio questa sorta di messa in distanza prospettica è di più che il semplice accostamento di tutti i valori formali di un museo simultaneo.
Qui non è simultaneo, è la simultaneità di un insieme di tracce che si stratificano. Ci sono i vari archi, le diverse sale, c'è una sorta di stratificazione, uno sull'altro, di questi oggetti. Quello che intendo dire è che questa riduzione degli oggetti a figurine comporta un atteggiamento affettuoso, però non si ha mai affetto per dei puri monumenti. Si ha affetto per dei monumenti che sono tracce di vite che noi sentiamo anche come mortali. Sicché non credo davvero molto arbitrario vedere in tutto questo una realizzazione di quella finta, arbitraria essenza del rococò di cui dicevo prima. Cioè, c'è qualcosa al di là della tragedia che scoppia a un certo punto, c'è una tragedia rattenuta, non tanto perché si sa che non vale niente, ma anzi vale tanto perché vissuta da persone che sono morte o che sono destinate alla mortalità. L'opera diviene un modo di vivere l'esperienza della mortalità, in questa maniera non tragica, non totalmente patetica.
Con questo, naturalmente, si deve poi comporre l'elemento di colore "forte", vivace che tu immetti nelle tue opere. Questo semmai potrebbe essere un elemento che contrasta con questa struttura. È qualcosa che non riesco immediatamente a spiegarmi. Personalmente non mi urta, non lo sento contrastante con questa interpretazione del tuo lavoro. Lo sento difficile da spiegare discorsivamente nella mia prospettiva.

U.N. Non pensi che la traccia della vita comporti sempre degli elementi di vitalità? Le figurine, poi, fanno un ampio uso del colore in toni esagerati, come, forse, per togliere la fissità di quei residui, di quelle schematizzazioni. Si tratta forse di un modo per animare (o rianimare?), per andare verso un senso di immediatezza.

G.V. Sì, può essere un buon argomento per dire che l'affetto con cui tu lasci apparire nelle tue figurine anche la tragicità consumata dell'oggetto che è stato esperienza di vita, comporta per lo meno un certo rispetto per il modo di darsi delle cose. Quindi per certe apparenze immediate, come il colore, che del resto era anche tra quelle cose di cui l'avanguardia diffidava di più in quanto eccesso di immediatezza che poteva farci dimenticare che l'apparenza è soltanto apparenza. Che l'apparenza sia mortalità non significa che sia solo apparenza. L'apparenza è mortalità e per questo vale, proprio perché è mortale. Così potremmo riassumere il discorso di una tua poetica. Per l'avanguardia l'apparenza, essendo solo apparenza, suscita sentimenti di trascendimento e anche di rifiuto, di messa in secondo piano, di messa tra parentesi; invece proprio su di essa tu intensamente lavori.
Semmai quello che forse mi sfugge, come non competente di storia dell'arte contemporanea o di storia dell'arte in generale, è quanto ci sia nel tuo lavoro di sopravvivenza di tecniche tradizionali, della pittura.

U.N. La ricerca di questi ultimissimi anni è andata oltre la rigidità teorica dell'avanguardia alla quale tu ti riferisci. Le neoavanguardie, tutte, hanno fatto opera di recupero di parte della tecnica, o anche della tradizione, della pittura. Io, per quel che mi riguarda, e proprio per quello che tu hai definito come atteggiamento affettuoso nei confronti del mio lavoro, ho usato sempre tecniche mutuate anche dalla tradizione. Le ho a volte usate anche con intenti provocatori, diciamo. C'è da credere che in epoca strettamente concettuale l'uso del colore a olio risultava, di per sé, una sorta di disturbo, di evento fuori luogo.

G.V. Può essere anche che tutto quello che io da fuori guardo e concepisco immediatamente come maestria motivata da un atteggiamento di attenzione affettuosa sia anche qualcosa di più, ad esempio una sorta di attenzione per tradizioni produttive che rischiano di essere dimenticate.

U.N. Ho, lasciami dire, provocatoriamente lavorato con materiali volutamente inusitati e fuori moda.

G.V. È vero. Mi ricordo, in America, di tuoi lavori con materiali strani, non legno...

U.N. Madreperla, avorio, argento, ebano... A metà degli anni Settanta avevo realizzato una mostra, quella che hai visto con me a New York e presentata da Furio Colombo, chiamata Fogginia e ispirata dall'opera di Gian Battista Foggini, artista fiorentino della seconda metà del Seicento al tempo di Cosimo III. Mi aveva colpito la sua grande abilità nell'uso di materiali diversi, il suo grande eclettismo. Provocatoriamente realizzai una serie di lavori con materiali preziosi e ben lavorati. Non soltanto come omaggio a una presunta tradizione artigianale che culturalmente non mi appartiene, ma anche come reazione personale al mal fatto e al facile di molta arte corrente.

G.V. C'è effettivamente un tipo di attenzione devota che molta arte contemporanea non ha. L'idea di liberarsi delle tradizioni formali ha finito per significare anche una messa fuori gioco di una quantità di elementi che invece meritano di essere ricordati. Forse, anzi, direi che uno dei criteri di valutazione che oggi mi sento di più - privatamente, se vuoi - di adoperare nel guardare le opere d'arte è proprio quanto di una tradizione tecnica mi viene evocato dall'opera, perché, di nuovo, non mi soddisfa tanto l'idea dell'artista-genio. Preferisco, non dico l'idea dell'artista-artigiano, ma l'idea dell'artista come deposito di una quantità di sapere che riesce a mettere in movimento nell'opera. Questo è un altro degli elementi che mi fanno ripensare al tuo lavoro.

U.N. È vero. Molta avanguardia storica e quelle che a essa si sono poi ispirate hanno messo in atto un'enorme diffidenza verso tutto quello che era legato alla maestria dell'artista. Ora, se da un lato assistiamo alla ripetizione pedissequa di quel luogo comune con un certo trionfalismo in quella che io chiamo l'arte del regime, dall'altro si assiste alla riscoperta di una certa maestria, e non parlo soltanto del semplice fatto tecnico.

G.V. Adesso, paradossalmente, è un po' come la rinascita della sartoria fatta su misura. Ci sono cioè cose, come dice il titolo del libro di un filosofo che conosco, "che i computer non possono fare". C'è una quantità di cose che, nonostante tutto, la riproducibilità tecnica non può fare. Allora vale il ritrovamento delle tecniche, anche di quelle apparentemente meno funzionali, se vuoi, più tradizionali, più preziose, più coinvolte con tutta una serie di tradizioni, anche quelle da cui pensavamo di aver preso congedo. La madreperla, figurati un po'! La parola madreperla per prima cosa mi evoca mia zia, o mia nonna, cioè una cosa di madreperla è una cosa…

U.N. Proprio perché indefinibile non sta alle regole del gioco, per questo mi è congeniale. In questa mostra non c'è madreperla. C'è però la stessa, identica vocazione all'insofferenza "bella".

Dal catalogo della Mostra "Ugo Nespolo A fine intolerance", Borghi & Co. New York, dall'8 ottobre all'8 novembre 1992
Dal catalogo della mostra Ugo Nespolo, Palazzo Reale, Arengario, Milano, dal 29 marzo al 29 aprile 1990, Electa, Milano