ARTISTA Antologia Maurizio Ferraris

Maurizio Ferraris

Il bello di Nespolo
Dal Vittoriano all'orinatoio

A Boston esiste, dal 1993, il MOBA (Museum of Bad Arts), un museo di brutte arti che organizza mostre e conferenze, sviluppando una idea semplice ma efficace: prendi un po' di croste e le chiami con il loro nome. L'operazione non riesce sino in fondo, alcune opere non sono poi così male, e nel complesso si ha l'impressione che la percentuale di arte brutta non risulti significativamente superiore a quella presente in molti musei di belle arti, antiche e moderne. Ma quello che importa è che il MOBA ironizza su quello che, da un secolo a questa parte, è il credo estetico fondamentale delle avanguardie, che chiamerei "dogma della indifferenza estetica". Cioè sulla tesi secondo cui la bellezza non è più l'obiettivo primario di quelle che una volta si chiamavano "belle arti", per distinguerle dalle arti utili. Questo credo estetico (o più esattamente anestetico) viene da lontano, e risale almeno al Romanticismo, caratterizzato da Hegel (al quale i romantici non erano per niente simpatici) come un predomino del contenuto sulla forma, come una disarmonia prestabilita e fortemente voluta. E non a caso nel 1853 un hegeliano, Rosenkranz, scrisse L'estetica del brutto, cogliendo lo spirito dell'epoca.

Tuttavia, come in ogni religione che si rispetti, il dogma della indifferenza estetica ha molti più seguaci in teoria che non in pratica. Si è sempre disposti, quando si scrive un saggio di estetica, a sostenere che quella di cui stiamo trattando è una esperienza concettuale in cui la bellezza è un fossile fuori luogo. Ma si è molto meno disposti a sostenere lo stesso quando si tratta di comprarsi un tavolo o una poltrona, un tappeto o un vestito: lì la richiesta di piacevolezza estetica resta immutata. Qui non è difficile riconoscere una contraddizione (o, per restare al clima religioso, una doppia verità), per cui abbiamo un'epoca, la nostra, che coltiva con cura il mito della bellezza e insieme accetta pacificamente che quelle che si chiamavano "belle arti" non abbiano più la bellezza come obiettivo prioritario. Abbiamo così, da una parte, le donne e gli uomini più belli della storia, oggetti curatissimi, cibi sceltissimi, vini incomparabilmente migliori rispetto a tutti gli altri vini che l'umanità abbia mai bevuto – e opere brutte, volutamente brutte, o sciatte, o insensate, o quantomeno un'arte che si crede autorizzata a essere brutta perché si reputa intelligente. E visto che l'occhio e magari il gusto vogliono comunque la loro parte, la consolazione, ai visitatori, viene offerta dalle gallerie, che effettivamente sono belle (torneremo su questo aspetto, che non è di dettaglio). O magari dal vino bianco e dal formaggio che ti offrono ai vernissages, e non al cinema (lì devi pagare tu, perché si suppone che le gratificazioni estetiche ti vengano dallo spettacolo). Ora, ci sono persone convinte che tra quello che si vede in una galleria e quello che ci si mette in casa ci sia un abisso. Io (ma non credo di essere solo, e comunque c'è almeno un altro, Nespolo) penso che non sia così, anche perché molte opere sono destinate a entrare nelle case delle persone, esattamente come tanti altri manufatti. Nelle pagine che seguono cercherò dunque di combattere il dogma della indifferenza estetica, corroborando il mio piccolo discorso teorico con il riferimento all'opera di Nespolo, che (come dimostra questo catalogo) costituisce un esempio lampante di contestazione della indifferenza estetica. Insomma, la domanda è: che cosa si può fare per evitare che ogni MOMA o MOCA o MACBA o MADRE o MAMBO diventi indistinguibile da un MOBA?

Malgrado le apparenze, quella del MOBA è una storia antica, i cui antefatti si trovano già tutti nella situazione descritta da Carlo Dossi quando commentava i bozzetti per il Vittoriano in I mattoidi: al primo concorso pel monumento in Roma a Vittorio Emanuele II: "Èccomi a voi, pòveri bozzetti fuggiti od avviati al manicomio, dinanzi ai quali chi prende la vita sul tràgico passa facendo atti di sdegno e chi la prende, come si deve, a gioco, si abbandona a momenti di clamorosa ilarità". Correva l'anno 1884, cioè un'epoca di cattivo gusto e di eclettismo. Si cercava ancora la bellezza, ma non la si trovava, e il risultato era la macchina per scrivere in marmo bianchissimo che tutt'ora abbiamo sotto gli occhi in Piazza Venezia a Roma, e che non è poi così male, in fin dei conti, se lo confrontiamo sia con alcuni dei progetti scartati su cui ride Dossi, sia con molte delle opere che riempiono le gallerie e i musei, e che si appellano a quella che propongo di chiamare Grande Arte Concettuale, quella appunto che ha coltivato il dogma della indifferenza estetica. Se le opere dei mattoidi erano spesso brutte, ma non lo facevano apposta, le opere della Grande Arte Concettuale sono altrettanto brutte, ma lo fanno apposta. Uno sarebbe portato a vederci una responsabilità in più, e invece, con un procedimento che ha del miracoloso (visto che riguarda proprio la trasfigurazione), mentre si è autorizzati a ridere del Vittoriano, a biasimarne la bruttezza, a compatirne l'autore, se ci si prova a fare lo stesso con la Grande Arte Concettuale sono guai, e si viene accusati di passatismo, incompetenza, persino (ed è singolare, visto che per l'appunto si tratta di opere che non aspirano alla bellezza) di cattivo gusto e di insensibilità estetica: la bellezza non è più affare dell'arte, e se non l'hai capito sei un ignorante.

La dottrina, a ben pensarci, è singolare, perché sarebbe come dire che la salute dei malati non è la priorità della medicina. E un malevolo, considerando che la Grande Arte Concettuale viene non molto dopo gli exploit del Vittoriano, potrebbe immaginare che il dogma della indifferenza estetica sia un'ulteriore versione della favola della volpe e dell'uva. Tuttavia il pubblico intimidito accetta e subisce. Va alle esposizioni e plaude e se può compra, dimostrando di essere molto meno sicuro di sé di quanto non fossero i borghesi dell'Ottocento, che magari si indignavano per gli impressionisti, ma che almeno, nel farlo, dimostravano di avere un proprio gusto. Al massimo, l'utente di Grande Arte Concettuale dice tra sé e sé: "Avrei potuto farlo anch'io". Ma si sbaglia di grosso: l'impresa è molto al di là della sua portata, è veramente e romanticamente titanica. All'epoca in cui i mattoidi concorrevano per il Vittoriano Nietzsche scriveva Al di là del bene e del male e proponeva una trasvalutazione di tuti i valori. Un disegno indubbiamente vasto, che tuttavia si è realizzato proprio nell'arte. Scomparsi gli ultimi visitatori impreparati, e dunque disposti a gridare "Brutto! Brutto!", a torto o a ragione, di fronte a opere che potevano essere brutte o belle, si è creato un incantesimo per cui i figli o i nipoti degli stessi dicono "Bello! Bello!" di fronte a opere che hanno una sola caratteristica dichiarata, e cioè quella di non aspirare alla bellezza.

Lo Zarathustra di questa trasvalutazione è stato ovviamente Duchamp, un trentennio dopo i mattoidi del Vittoriano. Ma il genio di Duchamp non è consistito, come talora si crede, nella rottura con il passato, bensì, proprio al contrario, con una continuità di fondo. Il suo orinatoio, o la Gioconda con i baffi, traggono le fila delle frustrazioni estetiche accumulate in generazioni di eclettismo e di pompierismo, oltre che di culto forzato e semi-religioso per la Grande Arte Non Concettuale. Sei stufo di dover manifestare una devozione estetica che non ti appartiene guardando Monna Lisa? Non preoccuparti, disegnale dei baffi, e sarai salvato grazie all'intervento della Grande Arte Concettuale. Non ne puoi più di opere che si struggono per essere belle e sono volgari o ordinarie? Anche qui, non preoccuparti: prendi un orinatoio, o uno scolabottiglie (curioso strumento, d'altra parte) o una ruota di bicicletta, lo esponi in un ambiente adatto (galleria, museo), gli dai un titolo e lo firmi, e lì realizzi la meravigliosa transustanziazione concettuale per cui un oggetto comune diventa un'opera d'arte. Da questo punto di vista, schivare la bellezza applicando il dogma della indifferenza estetica è centrale, per evitare che qualche incompetente possa pensare che il miracolo dipenda dall'azione di proprietà estetiche, e non dall'invenzione concettuale. Ecco la prima differenza rispetto al Vittoriano, che amava ancora la bellezza, sia pure senza esserne ricambiato.

Ce ne è una seconda. Perché del Vittoriano Dossi poteva tranquillamente ridere, mentre nel caso dell'orinatoio di Duchamp bisogna essere serissimi e pensosi, ammirati e concentrati, e se si prova a comportarsi altrimenti il rischio è di far la fine di Franti, che in Cuore è definito "infame" perché sorride quando il maestro racconta dei funerali di re Umberto. Come in ogni miracolo, è necessaria una buona dose di fede da parte degli osservatori. Ci devi credere. Ma, una volta che ci credi, allora davvero qualunque trasvalutazione è possibile. Vorrei dimostrarlo con un aneddoto. Qualche anno fa una importante fondazione di Grande Arte Concettuale mi chiese di organizzare un ciclo di conferenze in concomitanza con la mostra di un artista che proponeva, mi dissero, una profonda riflessione sulla violenza. Alla mia richiesta di sapere per sommi capi i contenuti della meditazione mi fu spiegato che l'artista era andato in un mattatoio in Messico, e ivi aveva abbattuto a martellate una decina di cavalli. La riflessione sulla violenza erano i video della mattanza. Feci notare che mi sfuggiva l'aspetto meditativo, dal momento che (se le parole hanno un senso) si trattava non di una riflessione, bensì di una azione, peraltro violentissima e crudele, una specie di snuff movie ai danni degli animali. Mi venne risposto che in ogni caso quegli animali sarebbero stati macellati. Dunque, se l'artista si fosse messo all'ingresso delle docce di Auschwitz a uccidere a martellate i disgraziati che ci entravano (e che sarebbero morti comunque) forse a quel punto qualche critico e gallerista avrebbe detto che quella dell'artista era una profonda riflessione sulla violenza. Tutta la conversazione si svolgeva, come è di rigore (torneremo su questo punto, che sembra laterale o ambientale ma è centrale proprio nel suo essere laterale o ambientale), in una stanza bianca, minimale ed elegantissima come un Apple Store, quelli che mi parlavano erano uomini e (in maggioranza) donne, ed erano tutti colti, educati, pacati. Il maleducato ero io, che non volevo capire. Tornando a casa, mi chiedevo se la trasvalutazione di tutti i valori non stesse passando dall'estetica all'etica, perché l'atrofia estetica, l'abituarsi a mandar giù qualunque cosa, aveva incominciato a scatenare una forma di atrofia morale.

Intimidazione e indulgenza
Poi la mostra non c'è stata, vietata dagli animalisti e dal questore. Mi chiedo: se ci fosse stata, l'artista si sarebbe messo con il martello sulla porta della galleria? Forse, ma anche senza artisti armati i visitatori sembrano normalmente piuttosto intimoriti. Ci sono delle volte che a girare per gallerie e per mostre ci si domanda quanta paura debbano avere le persone, che spesso pagano per visitare, e cosa le spinga a quell'atteggiamento rispettoso e timido, insomma chi li minacci. E come sia umanamente possibile trovare bello tutto, cosa che sicuramente non avviene al ristorante né ai saldi: ogni tanto qualcosa si rifiuta, o non piace, nella vita. Nell'arte, invece, tutto è bello, e questo – per un paradosso ulteriore – proprio nel momento in cui la Grande Arte Concettuale impone il canone della indifferenza estetica. Ora, è difficile non porsi una domanda elementare: in questa trasfigurazione, come del resto è frequente nelle trasfigurazioni, c'è non solo un bel po' di circonvenzione ma, appunto, anche una non modica quantità di intimidazione sociale, che si appoggia a quel solido elemento borghese che da Nietzsche a Bourdieu si è chiamato "distinzione". Non è distinto mostrare di non apprezzare la mattanza dei cavalli. E non è nemmeno distinto mostrare qualche esitazione di fronte a un'opera che consiste (mi è capitato di vederla) in una motosega messa in un canotto, credo a significare, un po' come uno Stilleben creato da Leroy Merlin, la caducità di tutte le cose umane. La motosega nel canotto era la versione ripetitiva e quasi parossistica, a quasi cent'anni di distanza, del Ready Made. Ora, so di non essere originale con questa osservazione, ma il Ready Made ha tutti gli aspetti di una trovata ingegnosa trasformatasi con il tempo, con l'iterazione e poi con l'imitazione, in un raggiro intellettuale con motivazioni di interesse economico. Nel suo cuore c'è una intuizione potente. Nel momento in cui i mattoidi del Vittoriano cercano la bellezza e non la trovano, e si impegnano a coprire ogni oggetto con una patina estetizzante, si propone un gesto radicale e si dice che è inutile cercare: qualunque cosa è un'opera d'arte.

Il primo movimento, dunque, è la dissacrazione. L'opera non ha niente di speciale, è una cosa qualunque. In realtà, non è vero che, anche avendo sott'occhio i ready made, qualunque cosa può essere un'opera d'arte, perché difficilmente si potrebbe trasformare in opera d'arte un evento naturale come un uragano, o un oggetto ideale come un triangolo equilatero (al massimo, ci sarebbe un oggetto concreto, il disegno del triangolo equilatero, in una galleria: e quello, non il triangolo in sé, sarebbe l'opera). Piuttosto, quello che Duchamp suggerisce è qualcosa di molto ragionevole e che personalmente sono disposto a sottoscrivere in pieno, come ritengo abbia fatto Nespolo nel corso di tutto il suo lavoro, e cioè che l'opera è anzitutto una cosa, con certe dimensioni, caratteristiche ecc. Anzi, è da che mondo è mondo che i musei (e le gallerie principesche che li hanno preceduti) accolgono ogni sorta di oggetti che non erano affatto destinati alla contemplazione estetica: armi, fibbie, tombe, e ovviamente anche corpi umani, come nei musei egizi, che dimostrano come la body art abbia un'anima antica.

La vera dissacrazione, dunque, non sta tanto nell'idea che qualunque cosa possa essere un'opera d'arte, quanto piuttosto nel dire che quella cosa qualunque che è l'opera d'arte può permettersi, diversamente dalle altre cose (lo verificheremo affrontando la questione del design) di essere brutta, cioè di non aspirare alla bellezza, allo status di quello che Duchamp definiva "arte retinica". Perciò, l'autentico colpo di genio di Duchamp è consistito, molto più che nel Ready Made, nella elaborazione pratica della tesi della indifferenza estetica. Questa tesi si rivela preziosa e salvifica proprio in un'epoca di gusto confuso, in cui l'eclettismo delle moltissime tradizioni genera la situazione delle ville brianzole descritte da Gadda nella Cognizione del dolore, che "tenevano della pagoda e della filanda, ed erano anche una via di mezzo fra l'Albambra e il Kremlino". In questa insalata russa di stili, di ceti, di gusti e di culture, più nessuno poteva essere certo del suo gusto, e ognuno in cuor suo aveva fondati motivi di essersi sbagliato: il tifoso degli Impressionisti perché ormai quel gusto era stato superato dai Cubisti, il cultore di Art Pompier perché era considerato un povero di spirito dai tifosi degli Impressionisti e del Cubisti, e Andrea Sperelli perché abitato dal sospetto che gli arredi della Capponcina fossero una vera porcheria. Da una parte, dunque, c'è la via che dal Vittoriano porta al Vittoriale, ossia la via inclusiva e sincretistica che raccoglie tutti gli orrori in un museo con tanto di mas della Beffa di Buccari nel giardino. Dall'altra, con un colpo secco, la rottura di Duchamp: quello che conta non è la Bellezza, ma il Concetto. Capito questo, con una radicale rivoluzione copernicana, dovete smetterla di preoccuparvi.

Tuttavia, l'apparente dissacrazione capitalizza tutto il valore sacrale dell'arte, e proprio qui si trova il nocciolo della intimidazione. Come i baffi alla Gioconda traggono il loro prestigio dalla trasgressione e dalla lesa maestà, così il ready made presuppone una consacrazione che è consustanziale alla dissacrazione. Duchamp, nel mostrare i suoi oggetti, sfruttava proprio il valore canonico dell'arte, tutto un patrimonio di rispettabilità e di auraticità che riportava in pari un bilancio altrimenti svantaggiosissimo: inchìnati a questa bruttura, al disonor del Golgota (si ricorderà che per Hegel il romantico trovava il suo paradigma fondamentale nello scandalo di Cristo in croce), perché proprio con questa genuflessione brucerai gli incensi al dio sconosciuto. Messa sul piedestallo, la cosa diventa opera, e il fruitore devoto contemplerà orinatoi e scolabottiglie con lo stesso atteggiamento teso ed esteticamente concentrato che si dedica all'arte romantica. Perché in effetti nelle gallerie ci si comporta come in chiesa, o come a Bayreuth: si fa spesso silenzio, o si bisbiglia, ed apparirebbe empio fruire delle opere come nel Settecento, età in cui a teatro si tenevano le luci accese e si mangiava. Anche lo chardonnay e il cheddar, alla fine, ha nella galleria piuttosto il senso di una eucaristia che non di una festa che riduce l'opera a ornamento e accompagnamento.

A sorpresa, dunque, mentre l'artista dissacra (almeno in apparenza), il fruitore consacra, e si sente investito di un compito decisivo: dare valore d'arte, con la propria fede, a un oggetto qualunque, proprio come un meteorite caduto nel deserto può essere trasformato dai fedeli nel simbolo del solo Dio. L'elemento comune alle due esperienze, al rito nella galleria e a quello nel deserto, è il mistero: non è chiarissimo che cosa ci si attende dall'opera, ma è una specie di redenzione. Insomma, se la riproducibilità tecnica dell'opera ha prodotto una perdita dell'aura derivante dall'unicità, quest'aura è stata prontamente ricostruita dalla fede dei fruitori. La manifestazione esteriore della devozione è spesso inadeguata, e dunque il "bello, bello" è più una invocazione che non un apprezzamento, ossia abbiamo a che fare con una strategia del sublime, che non a caso è stato ampiamente riabilitato nel discorso critico sulle avanguardie. Il bello brilla per la sua assenza là dove di bello non c'è proprio niente, anzi, si cerca deliberatamente il comune e il brutto. Ma in questa mancanza, in questa inadeguatezza tra il concetto e l'oggetto (questo è essenzialmente il sublime come lo teorizza la Critica del giudizio) si ha l'impressione di andare molto al di là del bello, o al di qua, tanto non fa differenza, perché ciò che contano sono le intenzioni e i pensieri, mica l'apparire sensibile, come suggeriva, con terrificante maschilismo, sempre Kant, dicendo che la donna può esser bella, ma solo l'uomo è sublime.

Come tutte le forme troppo ascetiche, ovviamente, l'intimidazione prevede più di una indulgenza, ossia degli spazi in cui il piacere viene restituito, delle feste in cui gabbare il santo. Non a caso l'epoca della Grande Arte Concettuale, come già quella dello spirito romantico, è l'unica nella storia del gusto che ha escogitato delle sottocategorie compensatorie: il Kitsch, il Camp, il Pop (e una di queste, cioè il Pop, è stata poi assunta all'interno della Grande Arte Concettuale con uno stratagemma, su cui torneremo più avanti). La situazione è quella del Vittoriano e del Vittoriale, ossia di un gusto che non è più sicuro di se stesso, o che non riesce a confessare le proprie predilezioni. Se uno vuole sentire Patty Pravo, se la preferisce di gran lunga a Luigi Nono, se gli piace la scatola delle zuppe Campbell's, non capisce un accidente di Picasso, e soprattutto si annoia a morte guardando per la milionesima volta l'orinatoio di Duchamp, ha una via d'uscita, dichiarare che, per l'appunto, gli piace il Kitsch, il Camp, e il Pop, e farà un figurone. E questo suggerisce che l'elemento comune alla triade compensatoria Camp-Kitsch-Pop è il timore di essere giudicati, e ancor più di giudicare, ossia una incertezza del gusto. Per un pieno "sdoganamento" (si direbbe con espressione non saprei dire se Camp, Kitsch o Pop) del fenomeno, si deve attendere un suo esito e sviluppo naturale, il postmoderno, che ne discende in forma esplicita, come si legge, per esempio, in una significativa conversazione tra Charles Jenks e Susan Sontag: l'idea di Jenks è che la gente si rovina la vita per dei principi, e che è meglio essere nichilisti, ossia, tra l'altro, non curarsi di coloro che ci giudicano Camp o Kitsch o Pop. E qui capiamo bene come, nella scena italiana, un certo gusto postmoderno abbia potuto recuperare retrospettivamente, che so, Don Backy, Don Lurio e la stazione di Milano, mentre abbia plaudito sin dall'inizio a Vanna Marchi e Irene Pivetti, apparse in piena epoca postmoderna. La genealogia è dunque tracciata. Si incomincia con il Camp, inglese e poi mondiale, si prosegue con il Kitsch e con il Pop, e si culmina con il postmoderno e con il pensiero debole, che restituisce agli utenti di Camp, Kitsch e Pop, cioè alla umanità intera, volente o nolente, una qualche buona coscienza, una specie di assoluzione o di indulgenza plenaria. "Non siete di cattivo gusto, non temete." O meglio: anche il cattivo gusto ha uno spazio e una dignità sociale, ha saggi, manuali, conferenze e convegni.

Come tutte le indulgenze, ovviamente, lascia in vita qualche dubbio: il perdono si estende anche a Dolce e Gabbana e ad Al Bano? Ma il nocciolo è chiaro. I romantici avevano voluto una sintesi tra filosofia e arte, avevano inseguito una nuova mitologia. Da questo sogno, però, erano sorti due frutti: l'arte ascetica, che muove i suoi primi passi nel tardo stile di Beethoven, e il Kitsch, che originariamente designava il gusto della nuova borghesia di Monaco, che non poteva soffrire i quartetti di Beethoven ma si inteneriva per i Loden. Con il tempo e con l'industria, con il capitalismo e l'imperialismo, il fenomeno si universalizza, appunto passando in circuiti culturali più forti e in circuiti industriali importanti. È in questo mondo che al Kitsch solitario di Hölderlin che dice che l'uomo abita poeticamente si sostituiscono Brian Jones in gessato nella Swinging London, Gina Lollobrigida, Victor Mature, Flash Gordon e i risvolti monumentali dei doppiopetto di Gianni Agnelli. In questo quadro di "liberi tutti" ci starebbe benissimo Nietzsche: "tutti i nomi della storia sono io", come scriveva a Burckhardt. O, come scriveva Arbasino nella fascetta del Super Eliogabalo, "Nietzsche, Adorno, Lacan, Totò". Tutti camp, non c'è dubbio. E, se le cose stanno in questi termini, il più camp di tutti è Heidegger, in giacca tirolese e berretto da notte in testa (tutti aspetti così ben colti in Antichi Maestri da quell'autore camp che è Thomas Bernhard), intento a proclamare che l'opera d'arte è, nientedimeno, porsi-in-opera-della-verità, illustrando la sua tesi con il tempio di Paestum, le scarpe dipinte da Van Gogh, e una poesia di Conrad Ferdinand Meyer.

Senso e sensibilità
Ecco la scena del crimine, quella in cui, tra un'arte povera che è ancora l'erede del Ready Made e dell'ascetismo, e l'avanzare del Pop, cioè tra Intimidazione e Indulgenza, Nespolo muove i suoi primi passi. Che fare? Intanto, contro il totalitarismo del concetto, Nespolo ha capito di buonora (e questo è il primo motivo della cura di bellezza a cui Nespolo sottopone l'arte concettuale), che non c'è arte senza appello alla sensazione, ossia a qualcosa che non è pensiero, e che dunque l'opera non è semplicemente il promemoria delle idee di un tale che, non si capisce perché, ha scelto di fare l'artista invece che il filosofo. Qui Nespolo va piuttosto a scuola da Hegel, non dove parla di romanticismo e di morte dell'arte, ma là dove ci dice che "senso" è una parola meravigliosa, perché ha due significati opposti: da una parte, indica i sensi – l'occhio, l'orecchio, il tatto, l'olfatto, il gusto – e tutto ciò che ha a che fare con la sensibilità. Dall'altra, indica il significato, il pensiero, come quando si dice "il senso della vita". Ed è per questo che i sensi si raddoppiano, e l'occhio è sia la vista, sia il discernimento (l'avere occhio), l'orecchio è sia l'udito sia il gusto musicale, il tatto è tanto il senso di base quanto la delicatezza nei rapporti umani, e così via. Proprio questa duplicità che sta alla base del fatto che sapore e sapere abbiano una origine comune, perché il latino sapio indica sia il gusto ("sa di sale, sa di pesce") sia, per traslato, l'intendersene, l'aver sapienza ("sa il latino, sa la matematica"). Non sorprenderà che l'estetica, ossia la scienza che, da qualche secolo, si occupa dell'arte, tragga il proprio nome dalla sensibilità (che in greco è aisthesis). Questa duplicità profonda e decisiva spiega perché "istituto di estetica" indichi sia una istituzione accademica dove si fa filosofia dell'arte e si studiano Kant, Hegel, Heidegger, Goodman, Derrida… sia un posto in cui ci si abbronza o ci si depila. Pretendere di interrompere la solidarietà tra questi due poli, e pensare che l'arte sarebbe stata tanto più grande quanto più discosta dalla sensazione, è stato il primo errore che ha portato alla via senza uscita della Grande Arte Concettuale. E viceversa è stato proprio non rompendo mai con i sensi e con la percezione che il Nespolo sin dal suo periodo concettuale ha continuato a tenere aperta la via per la bellezza.

Ma c'è di più, proprio come in Jane Austen. C'è insomma Sense and Sensibility, ragione e sentimento, ossia un'altra duplicità affine a quella della "meravigliosa" duplicità del senso. Il concettuale di Nespolo è sempre sentimentale, perché Nespolo ha capito che chi disprezza il sentimento in arte lo fa solo perché ha confuso il sentimento con il sentimentalismo. L'idea è molto semplice. Che cosa cerchiamo quando guardiamo le opere? Sentimenti, prima di tutto. Altrimenti ci saremmo letti un trattato. Non è prima di tutto la verità che si cerca nell'arte, e il riferimento dell'arte alla bellezza (o alla rappresentazione del brutto, dell'orrido ecc.) si spiega in questo quadro emotivo. E viceversa si capisce per quale motivo, come abbiamo visto nel caso dell'ammazzacavalli, un certo grado di atrofia estetica possa accompagnarsi all'atrofia morale.

C'è poi un terzo elemento della circumnavigazione della Grande Arte Concettuale da parte di Nespolo. Ed è il fatto che le sue opere manifestino una ricerca di stile, una riconoscibilità immediata, sia pure attraverso la grandissima varietà di realizzazioni, di media, di temi. Lo stile è l'uomo, si dice. Ma è anche l'opera, perché ciò che ci aspettiamo dalle opere è qualcosa di unico e di individuale, proprio come avviene con le persone. Attraverso la nozione di "stile" si trova l'elemento comune che unisce le persone, e quelle cose che fingono di essere persone che sono le opere d'arte. La firma di Nespolo, inconfondibile, contiene in nuce tutte le sue opere, è leggibile in ognuna di esse come un piccolo concentrato di storia dell'arte, tra Picasso (a cui assomiglia un poco) e Sergio Tofano (quello del Signor Bonaventura: vedere per credere).

Dieci, undici, dodici Muse
Dopo il recupero della sensibilità, del sentimento e dello stile, il bello di Nespolo richiede una seconda mossa. Molto spesso i filosofi quando elaborano teorie sull'arte si riferiscono all'arte visiva, quasi che fosse paradigmatica, mentre non lo è affatto. Certo l'arte visiva contemporanea e la sua chiesa museale sono consacrazione, rituale, ammirazione retti dalla tesi della indifferenza estetica. Ma c'è una grande quantità di oggetti artistici (basti pensare ai video, ai film, ai fumetti, alle canzonette) che occupano molto più intensamente la nostra vita e seguono tutt'altri culti, cercando di conquistare il fruitore con attrattive più profane, senza potersi permettere il lusso della indifferenza estetica. Visto che la buona volontà non basta, può spesso accadere che questi oggetti siano brutti o così così, ma il punto è che i fruitori lo dicono: "questo mi piace, questo non mi piace", mentre di fronte all'arte visiva le cose andavano diversamente. Dunque la morte dell'arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione. Solo che non riguarda tutta l'arte, ma solo l'arte visiva, anzi, quella parte dell'arte visiva che si autocomprende appunto come Grande Arte Concettuale, mentre altre arti stanno benissimo, e ne nascono di nuove (si pensi ai videoclip, o alla Graphic Novel, un genere contiguo a molti dei lavori di Nespolo). Non sarebbe la prima volta (per esempio, a un certo punto sono scomparsi i poemi epici e sono apparsi i romanzi), e la cosa davvero interessante è chiedersi che cosa ci sarà dopo, o se il dopo è già qui.

Di questa trasformazione, che era già stata ben compresa da Wagner con il suo appello alla multimedialità del Wort-Ton-Drama, Nespolo è stato l'eroe infaticabile (e allora forse le muse salgono addirittura a dodici, come le fatiche di Ercole). Ci vorrebbe un bel po' a elencare tutte le arti praticate da Nespolo, e non per sport, senza dimenticare ovviamente che si è dedicato all'arte per lo sport, disegnando la maglia rosa del giro d'Italia del 2003, e arrivando addirittura al palio, anzi, ai palii: quello della Giostra della Quintana di Foligno, quello ad Ascoli, di Asti, di Siena (c'è effettivamente qualcosa dei blasoni nobiliari nel suo stile, e in molti casi ci gioca sopra). E poi l'opera lirica, momento pop, ma antico, luogo in cui si creano le psicosi collettive, alla Wagner e Nietzsche. Per Nespolo è soprattutto Puccini, che è davvero nelle sue corde, con un misto di americanismo e di orientalismo che si fondono nella Versilia. E prima ancora l'Elisir d'amore di Donizetti, e altra musica, che è al tempo stesso quella di Luciano Berio e quella di Ivano Fossati, cioè appunto le due anime della Intimidazione e della Indulgenza messe insieme e fatte risuonare.

Fra tutte le muse anticlassiche e anticoncettuali forse la più frequentata da Nespolo è il cinema, o meglio, per metterla un po' come nei negozi di un tempo, il cine-foto-ottica. Che oggi diriga il Museo del cinema non è un accidente: si è creata una circolazione virtuosa tra i modelli cinematografici che assume come esempio per la sua estetica e per le sue opere, e i film che realizza. Quanti film ha girato Nespolo, e non solo di avanguardia, anche di pubblicità, e le videosigle della Rai... La scelta del cinema ha un significato preciso. Si deve appunto andare in bocca al lupo. Quasi cent'anni fa, Benjamin aveva sostenuto che la riproducibilità tecnica avrebbe portato a una perdita dell'aura, del senso di unicità che accompagna le opere d'arte. Si riferiva al fatto che, tipicamente, ai quadri venivano sostituite le fotografie, al pezzo unico i molti esemplari. Cinquant'anni fa e con istinto sicuro Andy Warhol si mise a fare foto con la polaroid, e a firmare gli scatti, perché in effetti quelle foto senza negativo erano dei pezzi unici. Ma, ovviamente, erano anche delle anomalie, perché la foto ordinaria, la foto regolamentare, ha un negativo, dunque è infinitamente riproducibile, e lo è a maggior ragione nel caso delle foto digitali. Chissà cosa avrebbero detto Benjamin (morto nel 1940) e Warhol (morto nel 1987) se avessero potuto prevedere che ora questa riproducibilità è cresciuta in modo vertiginoso, giacché l'immagine si moltiplica in ragione dei luoghi in cui è riprodotta o, più correttamente, da cui è possibile accedere alla rete. Concretamente, se digito "Brillo box"+"Warhol" su Google ottengo quasi novemila risultati, e se seleziono la ricerca di immagini trovo quasi tremila riproduzioni della Brillo Box, la scatola di pagliette per pulire le pentole esposta da Warhol nel 1964 e considerata una icona pop. Ma se faccio questa ricerca sul mio iPad ho le tremila immagini a disposizione in un altro luogo, e così se cerco sul mio iPhone. Risultato: sul medesimo tavolo, a distanza di pochi centimetri, ho a disposizione virtualmente novemila immagini della Brillo Box, e ventisettemila siti che ne parlano o la riproducono.

Ben lungi dallo sfuggire queste tecniche di iper-riproduzione, Nespolo le colleziona e se ne circonda (nella sua Factory ha una immane raccolta di cineprese, e non si perde un solo oggetto tecnologico, dai juke box all'iPad), e questo vale anche per il suo rapporto con la moda e per la modernità. Si è insistito tanto sul fatto che la moda è una forma d'arte senza ragionare a sufficienza sul fatto che è non meno vero che l'arte è una forma di moda, e non può non esserlo, anche perché così era già prima dell'imporsi dell'arte romantica che ha espulso in linea di principio qualunque valore di utilità dall'arte. Ecco il significato di New York, come lo leggiamo nella biografia di Nespolo: alza gli occhi verso i grattacieli e li abbassa verso le vetrine. Riuscire a passare dalle cravatte e dai vestiti di Brooksfield a Fluxus è il segno di un genio di trasfigurazione. Dalla Grande Arte Concettuale alla utilità più concreta, sino a quella estrema disutilità appoggiata soltanto da un sogno di bellezza ornamentale che sono appunto le cravatte. La moda, le stoffe, i tappeti, i centri commerciali, questo è il bello del nostro tempo, e un artista intraprendente non può far finta di niente. Sarebbe legarsi a una concezione di altri tempi, forse di nessun tempo, se si pensa che con i feuilleton era già in opera nella letteratura sin da Balzac.

Ancora una tappa della moltiplicazione delle muse. Nespolo è biellese, per l'esattezza di Mosso, 18 chilometri da Biella. E Biella è la patria di Aiazzone, un nome che (quando di Ikea non si aveva neppure il remoto presentimento) ha contato, per la mia generazione, con le sue stralunate pubblicità di mobili. Ora, Nespolo, come prima cosa, arrivato al Museo del Cinema, ha fatto cambiare l'arredo dell'ufficio. Le apparenza contano, perché la bellezza conta davvero. Con questo mettendoci in collegamento con un altro grande modo per godere delle arti visive, quella che potremmo chiamare la Musa Malinconica del Mobile. In Che cosa significa pensare, con quella che è una concreta contestazione della Grande Arte Concettuale, Heidegger afferma che pensare è una attività manuale, e aggiunge che pensare è un po' come costruire un armadio. Heidegger a parte, l'arredamento ha la stessa musa della filosofia, ed è improntata alla malinconia. Ecco un altro modo per guardare agli oggetti. La Transfiguration of the Commonplace che Arthur Danto attribuisce al ready made di Duchamp e poi a Warhol trova un preciso antefatto nella pittura di interni degli Olandesi, e in particolare di Vermeer, che si impegna con successo in una "trasfigurazione del quotidiano" (che diviene "accettazione del quotidiano" in Edouard Vuillard). In effetti, che nell'oggetto ci sia sempre un'opera in potenza ce l'hanno insegnato gli Olandesi molto prima che la Pop Art, sebbene questo paragone riveli una affinità profonda tra gli abitanti della Amsterdam del Seicento e della Nuova Amsterdam del Novecento, accomunati da una profonda fierezza borghese di possesso dei beni. In questo orizzonte, con una trasfigurazione di Ajazzone Nespolo non si tira indietro neppure di fronte all'arredamento, progetta tavoli e poltrone, tutte cose inconcepibili per la Grande Arte Concettuale. Materie multiple. Legno, bronzo, ceramiche. Arte applicata: piatti, orologi. E attaccapanni. Ora, si noti bene, tra il mobiliere e il museo, così come tra l'oggetto e l'opera, l'affinità è più grande di quanto non si pensi. Ce lo insegna La filosofia dell'arredamento di Praz: è del 1776 la raffigurazione di una camera del Prinz-Max-Palais di Dresda, una delle prime testimonianze di un genere poi fortunatissimo nell'Ottocento, quello di "un interno ritratto per se stesso", senza figure umane. Come l'acquerello alla Malmaison, iniziato nel 1812 e compiuto vent'anni dopo, che rappresenta un salotto con una poltrona su cui è abbandonato uno scialle di cachemire. Da un altro acquerello del 1807 si arguisce che si trattava dello scialle di Joséphine, la prima moglie di Napoleone, che aveva abbandonato quella sedia, appunto, da vent'anni, e la vita da diciotto. Un lieve brivido percorre questi interni deserti, e sarà per questo che nei cataloghi e nelle pubblicità dei mobili si ha generalmente cura di mettere delle persone felici. Perché in quella stanza da cui ogni vivente si è assentato si nasconde il segreto dell'essere, di ciò che c'era prima della nostra nascita e che resisterà dopo la nostra morte. I muti servitori (o letteralmente il servo muto che regge i nostri abiti la sera) che ci obbediscono senza una parola ma che, esattamente come nella dialettica hegeliana di servo e padrone, alla fine hanno la meglio.

Museum Shop
Ma cosa c'è dietro alla strategia di Nespolo? Alla fine, è un rapporto tra l'oggetto e l'ambiente su cui conviene riflettere un poco. Goethe ha scritto una volta che non è necessario che il vero prenda corpo, basta che aleggi nei dintorni. Questo principio è indecifrabile per la verità (che cosa può essere un vero ambientale?) ma si attaglia perfettamente al museo. Se gli artisti sostengono che la bellezza non è la priorità delle opere, ecco che questa migra altrove, e si dispone nei dintorni, aleggia nell'ambiente, con un passaggio dall'ergon al parergon, dall'opera alla sua cornice. Poi, dalla cornice, l'attrattiva estetica può tornare a concentrarsi, ma non nelle opere, bensì in quell'elemento capitale del museo moderno che è il museum shop, dove trovi oggetti che partecipano del rito e ti permettono di farlo entrare nella tua vita sotto forma di sacche, cravatte, matite e cancelleria varia. Vorrei verificarlo con qualche appunto di diario tra musei, dove – ecco la questione centrale – ciò raramente si dà l'esperienza estetica "normale".

Venezia, Punta della Dogana. È il caso tipico di una funzione consolatoria del contesto. Le opere non sono tutte belle, anche se come da copione i visitatori mormorano "bello, bello". Certe sono brutte, o irrilevanti, e l'occhio, inevitabilmente, cade sempre sul contorno, non trovando nelle opere nutrimento sufficiente. Alla fine vengo attirato, come tutti, da Fucking hell di Jack e Dinos Chapman, immensi plastici, quasi corredi da treni elettrici, che raffigurano una grande epopea nazista, in effetti una specie di versione visiva delle Benevole di Jonathan Littell. La ricerca di senso, frustrata da gran parte delle opere, e compensata dalla bellezza della cornice, si polarizza di fronte a questa installazione riconoscibile (i visitatori infatti smettono di dire "bello, bello" ma dicono "chissà quanto tempo hanno impiegato per farlo, che pazienza").

Rovereto, Mart, 2007-2008, una esposizione sulla parola nell'arte. Qui il contesto è più spoglio, gli ampi spazi di Mario Botta sembrano lasciare maggiore autonomia alle opere, e a questo punto sono le opere che si vendicano sull'ambiente. Ci sono pezzi che vanno dal futurismo e dalle avanguardie russe sino ai contemporanei più contemporanei, passando ovviamente per Duchamp. E nella stanza di Duchamp c'è la classica installazione antincendio, il vetro da spaccare con le scritte sopra, e dentro una pompa arrotolata. Visto però che tutto intorno ci sono i ready made di Duchamp, sembra anche quello un ready made, e funziona alla perfezione.

Parigi, Louvre, scena classica, la più classica che si possa immaginare. La Gioconda. La si vede sempre da lontano, schermata da un muro di turisti giapponesi. È una visione che in genere si ha da molto giovani, in gite scolastiche, ed è accompagnata da malinconia: perché quella immagine lontana non suscita immediatamente il trasporto sognante e fantastico che ci avevano garantito avrebbe dovuto suscitare? Niente, siamo fermi lì, lontani, ci fanno male i piedi, e incominciamo a dubitare della Grande Arte.

Napoli, Reggia di Capodimonte, qualche anno fa, esposizione di Caravaggio. Arrivo sul tardi, i pezzi esposti sono pochi e l'ingresso costa abbastanza caro, così mi accade un'esperienza rarissima per i musei, sono solo, a tu per tu con i cinque o sei quadri di Caravaggio. Il risultato è l'inverso che la Gioconda: quelle opere lì, esposte, senza alcun altro visitatore mi danno l'impressione di essere finte.

Penultima esperienza, già meno frustrante. Sono a Dresda, ho visitato prima di tutto quella naturale raccolta di ready made ante Duchamp che sono le raccolte di armi. Poi salgo a vedere i quadri. Al pian terreno vedo il ritratto di un signore del Seicento con uno sguardo malinconico, e scopro che è Maurizio di Nassau. Faccio due piani, e vedo un volto familiare, mi avvicino e mi rendo conto che è un secondo ritratto di Maurizio di Nassau, invecchiato. Come dire che quel volto non mi è nuovo, e questo mi dà un sicuro piacere estetico. Qualcuno mi dirà che no, non è piacere estetico, che il vero piacere estetico è un altro, ma sinceramente non capisco perché.

L'esperienza religiosa che oramai siamo soliti associare al piacere estetico però ce l'ho a Los Angeles, al Paul Getty Museum. Ci sono andato perché ho fatto una conferenza il giorno prima e alla sera devo ripartire per l'Italia. Senza macchina non è che uno a Los Angeles possa fare più di tanto per cui mi sono fatto portare in taxi al museo, aspettando che venga l'ora di andare all'aeroporto. Il tempo non mi manca e il luogo è meraviglioso, con una stupenda vista sul mare. Giro senza fretta, e quando sono abbastanza stanco per sentire il bisogno di sedermi ecco che mi trovo davanti all'immenso Ingresso di Cristo a Bruxelles di James Ensor. Del tutto inaspettato, mi colpisce, e davvero mi dà l'idea del miracoloso. Ecco, questa è l'esperienza tipo che ci insegnano dovrebbe accadere nell'arte, ma, almeno per me, è rara.

Il museo più surreale della mia vita tuttavia non è stato un museo, bensì un anomalo metamuseo che ho trovato una volta senza cercarlo, un negozio a Torino dove si raccoglievano tutti i gadget dei museum shop di tutto il mondo, di tutti i MOMA, MOCA, MET. Ci mancava solo il MOBA. A mio parere il proprietario aveva capito l'essenza del culto che si celebra nei musei, e ne aveva raccolto le reliquie. Anche se, come si dice solitamente dei grandi artisti, deve essere stato incompreso, e il negozio, se non sbaglio, ha chiuso. Ma per fortuna resta aperta la sterminata collezione di Nespolo. Avete in mente l'archivio o la Mnemosyne di Nespolo? Quando, nella sua Factory, apre quelle porte blindate, con tutto ordinato dentro? È l'archivio. E poi ancora la collezione. Non ripeto qui quanto ho già scritto in un'altra occasione sulla sua Fortezza della Solitudine a Torino, sul suo immane archivio e auto- ed etero- museo, sulla sua Galeria, con una elle, quella che si era fatta il Cavalier Marino inaugurando una moda che da allora non ha cessato di fiorire. E vengo al punto che mi premeva di più.

Il Ready Made desnudo
Questo dell'oggetto è un punto che non va dimenticato, e che è il centro segreto di tutta la poetica di Nespolo. La Grande Arte Concettuale ci ha per l'appunto abituati (a esser gentili, poiché come abbiamo visto c'è anche un po' di intimidazione) ad accettare la tesi che "qualunque cosa può essere un'opera d'arte": compri al supermercato una caffettiera, la esponi in una galleria intitolandolo "malinconia all'alba", ed è un'opera d'arte. Tuttavia (ecco, a mio avviso, l'esperienza originaria da cui prende avvio l'opera di Nespolo), se si prende lo stesso cavatappi e lo si mette in un negozio di design, dicendo che è un'opera di design, non funziona, i fruitori non accettano di considerarlo un'opera di design, ed esigono piuttosto il cavatappi di Philippe Starck. Non è strano? Tra il Design e il Ready Made sembra istituirsi una antitesi singolare.

Nel caso del Ready Made, infatti, l'idea è che qualunque cosa, presa da un ambiente di produzione standardizzata può essere un'opera d'arte, qualora riceva la benedizione di un mondo dell'arte che decreta che si tratta di un'opera. Nel caso del Design assistiamo piuttosto a una ricerca che ha lo scopo di produrre un buon oggetto, attività per la quale, diversamente che nel caso dell'arte, non basta l'assenso di un critico e di un gallerista. Bisogna fare i conti con esigenze di funzionalità, di riproducibilità tecnica, di realizzabilità industriale. Di qui un paradosso su cui forse vale la pena di riflettere. Il senso comune intimidito accetta che qualunque cosa può essere un'opera d'arte. Ma al tempo stesso il design ci insegna quanto difficile sia produrre dei buoni oggetti, e che non è affatto vero che, per esempio, qualunque oggetto può essere un oggetto di design. Come risultato, se è vero che l'essere opera d'arte è, per un oggetto, qualcosa come una santificazione, mentre l'essere un oggetto di design è, per così dire, una promozione di rango minore, una sorta di beatificazione, si direbbe che nel Novecento sia stato più facile essere santi che beati.

Il design, diversamente dalla Grande Arte Concettuale, non può permettersi il romanticismo, l'esubero del significato e l'indifferenza estetica. No, deve conservare un qualche equilibrio classico tra interno ed esterno, così come tra forma e funzione. È da questa osservazione, credo, che Nespolo ha preso le mosse non per ritornare a un bello premoderno, ma piuttosto per mettere in luce il non-detto del Ready Made, il suo volto segreto, e la sua verità. C'è prima di tutto, lo suggerivo con l'esempio del museo, un rapporto tra l'oggetto e l'ambiente. L'orinatoio fuori di un museo, per esempio in una discarica, non avrebbe generato alcun contrasto, il che dimostra che Duchamp non era sincero sino in fondo quando dichiarava la propria indifferenza nei confronti dell' "arte retinica". Al contrario, era sensibilissimo a questo dato, ma, per l'appunto, lo taceva.

Ora veniamo a quella singolarissima trasfigurazione del Ready Made, reso piacevole e rotondo come un vino californiano, che è appunto la Brillo Box. Si avrebbe torto a pensare che una cosa come la Brillo Box riprenda l'orinatoio di Duchamp. A stretto rigore, non ha niente in comune. Prima di tutto, non è affatto un Ready Made: è stato fabbricato, fuori da ogni finalità pratica, apposta per una mostra, e dentro non ci sono affatto le pagliette per lucidare le pentole, anche perché la scatola è molto più grande dell'originale, e se contenesse pagliette di ferro peserebbe un quintale. Esattamente come la Pietà di Michelangelo (e diversamente dall'orinatoio o dallo scolabottiglie di Duchamp) il Brillo Box è fabbricato per essere un'opera. Lungi dall'essere un oggetto trovato e messo in mostra con un gesto nichilistico è al contrario e letteralmente (viso che si aumentano le dimensioni) la magnificazione di aspetti della nostra vita, della vita delle società di massa e della pubblicità (con le zuppe, con le dive, con i potenti televisivi) che ci vuol dire: "guarda come è bello il tuo mondo, guarda che splendore, come sono belle quelle scatole e quelle donne, come sono potenti quegli uomini." Warhol investe di una fortissima carica estetica le sue opere: magnifica, alla lettera (cioè, rende più grandi, ed evidenti), le zuppe Campbell's, i Brillo Box, e ovviamente le Marilyn Monroe e le Liz Taylor per un semplice e decisivo motivo, e cioè che sono belle, cosa che, di nuovo, non si può dire né dell'orinatoio, né dello scolabottiglie, né della mariée di Duchamp. Vien quasi da pensare che tra Duchamp e Warhol l'unica affinità sia consistita nel nell'aver lavorato a New York.

In più, come un premio di seduzione, la Brillo Box richiama, per delle vie metaforiche, il Ready Made, visto che in effetti si tratta di riproduzione di cose che si trovano nel mondo, di oggetti di consumo. Dunque, rende esteticamente piacevole ciò che era solo brutto o insignificante nel vero Ready Made, cioè nella Grande Arte Concettuale. Più che una trasfigurazione del banale promosso ad arte, Brillo Box appare come una secolarizzazione del Ready Made, che cala le aspre e brutte provocazioni della Grande Arte Concettuale sul più accogliente terreno del Pop. Si tratta, cioè, di un processo che ha la stessa dinamica e le stesse motivazioni del rapporto tra alta moda e prêt à porter: prendi un fenomeno astruso, un puro gioco intellettuale senza alcuna attrattiva estetica e lo riproponi in una cornice infinitamente più attraente e sensuale (sensuale e attraente almeno come sono le scatole che occhieggiano dagli scaffali dei supermercati). Del fenomeno originario resta ben poco, anzi, in sostanza proprio niente, perché quelli di Wahrol non sono dei veri Ready Made, non più di quanto quelli di Lichtenstein siano dei veri fumetti. Tuttavia la loro piacevolezza colorata e ornamentale viene nobilitata da un richiamo metaforico al grande gioco, al gioco della Grande Arte Concettuale.

Ecco l'arcano che ha capito Nespolo. Il pubblico sopporta tante vessazioni (proprio nel senso in cui, con lucidità e ironia, Eric Satie intitolò Vexations il suo pezzo per pianoforte da eseguirsi ottocentoquaranta volte di seguito) perché la bellezza si è rifugiata altrove, in un terzo mondo rispetto all'intimidazione della Grande Arte Concettuale e alla indulgenza del Kitsch-Camp-Pop, sebbene sia disposta a dialogare con l'una e con l'altra come dimostra la doppia ascendenza, dall'arte povera e dal pop, di Nespolo. Non solo nelle pareti elegantissime della galleria che accoglie le opere la cui priorità non è la bellezza, ma nel design dei mobili e degli alberghi e dei ristoranti, e soprattutto nella quantità di splendidi oggetti che vengono prodotti industrialmente. Cose come le Olivetti lettera 32 un tempo e gli iPod e gli iPad oggi, le automobili e i pennarelli giapponesi, le Moleskine e i ventilatori anni Cinquanta, i juke box e le penne Mont Blanc. Che queste cose siano belle è naturale e giusto, dal momento che la loro bellezza ne facilita l'acquisto. Che abbiano una dignità estetica culturalmente riconosciuta è anche ovvio, se si considera che al MOMA e altrove vengono conservate nella sezione del Design.
Ma, appunto, non era anche il segreto più segreto del Ready Made? Il fatto che l'oggetto avesse un suo carattere, una sua bellezza nascosta? Sembra che persino il più deliberatamente oltraggioso dei ready made, l'orinatoio, fosse stato esposto la prima volta da un gallerista che lo trovava bello, ossia per una ragione opposta a quella ufficialmente dichiarata da Duchamp. In questi oggetti, che frettolosamente vengono definiti "arte minore", c'è oggi la base per l'arte maggiore, per qualcosa che permetta di superare l'epoca della Grande Arte Concettuale. Questa bellezza è da sempre lì, in attesa, ovunque si raccolgano degli oggetti, testimoni secondari della nostra vita, nelle soffitte, dai rigattieri, o in quei meravigliosi archivi di oggetti che sono i negozi di ferramenta, dove tra chiodi, pinze, martelli, chiavi, viti e migliaia di altri oggetti classificati minuziosamente (altrimenti come riesci a trovarli?) c'è un inventario di mondi e dunque di storie possibili, da cui ricavare centinaia di romanzi (dalla coppia che va a comprare chiodi e martello per appendere i quadri nella casa nuova a lui o lei che qualche anno dopo torna per farsi cambiare la serratura) e soprattutto una potenzialità di forme le cui risorse estetiche sono per l'appunto il centro della ricerca di Nespolo.

Lasciatemi fare una previsione non complicata È difficile pensare che del Novecento resteranno molte delle opere la cui priorità non era la bellezza. Forse si conserveranno con uno scrupolo documentario ed etnografico, o come curiosità un po' sadica, così come ci sono i musei della tortura o dell'inquisizione. Ma sicuramente rimarranno gli oggetti. Quelli di design, probabilmente. Ma più sicuramente, più profondamente, gli oggetti tout court: sono proprio loro che rimangono per definizione. Lasciamo la ferramenta ed entriamo nella factory di Nespolo, cercando il sugo della storia. Duchamp ha pensato di dimostrare che qualunque cosa può essere un'opera d'arte, ma quello che ha dimostrato è piuttosto (e per fortuna) altro, e cioè che l'opera d'arte è anzitutto una cosa. Moltissimi artisti hanno seguito Duchamp nella prima prospettiva, cioè sulla pista sbagliata, in un inseguimento di trovate e di mirabilia sempre meno sorprendenti e sempre più ripetitive in cui la regola di fondo è l'idea – degna del peggior burocrate – che basta un certificato e anche un mal di denti può diventare un capolavoro. Molti meno lo hanno seguito (o meglio, contraddetto e perfezionato) sul secondo versante, sulla tesi che trova nell'opera prima di tutto una cosa. E tra questi un posto del tutto speciale spetta proprio a Nespolo. Che ci ricorda che in tutta questa lotta di concetti il grande vincitore è sempre l'oggetto, con il fascino egizio del suo sopravvivere:

     El bastón, las monedas, el llavero,
     la dócil cerradura, las tardías
     notas que no leerán los pocos días
     que me quedan, los naipes y el tablero,
     un libro y en sus páginas la ajada
     violeta, monumento de una tarde
     sin duda inolvidable y ya olvidada,
     el rojo espejo occidental en que arde
     una ilusoria aurora. ¡Cuántas cosas,
     láminas, umbrales, atlas, copas, clavos,
     nos sirven como tácitos esclavos,
     ciegas y extrañamente sigilosas!
     Durarán más allá de nuestro olvido;
     no sabrán nunca que nos hemos ido.

(Dal catalogo della Mostra NESPOLO THAT'S LIFE, a cura di Danilo Eccher, Fondazione Puglisi Cosentino, Fondazione Terzo Pilastro, Catania, dal 2 ottobre 2016 al 15 gennaio 2017, Catalogo