ARTISTA Antologia Bruno Di Marino

Bruno Di Marino

SHAPES AND SHADES
50 anni di immagini in movimento


Dalla sua prima opera filmica, quel Grazie, Mamma Kodak (1966) che fin dal titolo denuncia il fatto che ogni film sperimentale è prima di tutto un meta-film nel suo strutturarsi come riflessione sul dispositivo che utilizza - fino a Shades on the Couch, realizzato nel 2016, è evidente come il percorso audiovisivo di Ugo Nespolo, pur nella diversità dei suo momenti, mantiene una sua organicità, oltre che una coerenza stilistica e linguistica rispetto al resto della sua opera (quadri, illustrazioni, sculture, ecc.). Nespolo, inoltre, è forse l'unico artista degli Anni Sessanta-Settanta - fatta eccezione per Paolo Gioli - che ancora oggi continua a realizzare film, senza nostalgia per la pellicola ma, anzi, trovando le infinite possibilità della post-produzione digitale più plasmabile e, dunque, più affine alla sua estetica caleidoscopica.

In fondo la sua prima e la sua ultima (almeno per ora) incursione in campo cinematografica, hanno molto in comune tra loro. Grazie, Mamma Kodak è un allegro patchwork in cui Nespolo mescola immagini di repertorio (film di vampiri, di fantascienza o documentari naturalistici) con sequenze perlopiù accelerate girare da lui in giro per Torino, in alcuni casi autofilmandosi. Si tratta dunque di un found-footage parziale, con alternanza di monocromatismi e uno psichedelismo tipico di certo underground, a cominciare da quello statunitense, al quale l'artista invita lo spettatore fin da subito, mostrandoci - e riproponendolo più volte durante il film - un dispositivo cinetico-luminoso che ricorda lo zootropio, ma anche la Dream Machine di Gysin o Burroughs, inducendoci così in uno stato di ipnosi. Il 1966, del resto, è lo stesso anno in cui Stan Van Der Beek inaugura il suo Movie Drome e quel cinema esperienziale che risponde al nome di expanded. Comunque Grazie, Mamma Kodak possiede quella spensieratezza ludica e irriverente tipica del cinema, e più in generale, dell'estetica nespoliana, che si configura come vitalistico inno di immagini in libertà. La nuova sonorizzazione di qualche anno fa di Carlo Actis Dato (che ha ri-musicato questo e altri film dell'artista tornese) marca ancor più - grazie a un sax simile al flauto incantatore di serpenti - l'energia contagiosa di questo filmcollage che si propaga nei due successivi, entrambi del 1967: La galante avventura del cavaliere dal lieto volto, girato nella villa di Lucio Fontana, e il più breve Le gote in fiamme: esperimenti pop e flamboyant, da slapstick comedy, dove Nespolo contempla sia l'aspetto performativo sia quello grafico, con l''ausilio di tocchi pittorici direttamente sulla pellicola. Anzi, c'è da aggiungere che in Grazie, Mamma Kodak in un paio di momenti, vengono filmate a passouno alcune tipiche composizioni a intarsio di Nespolo nel loro magico autoassemblarsi ed è un vero peccato che l'autore non abbia utilizzato maggiormente nel suo immaginario cinematografico l'animazione, così adatta a trasporre sullo schermo la propria opera pittorica, se non in casi saltuari come i suoi interventi televisivi videografici alla fine degli Anni Ottanta per Raidue o per Raisat.

Esattamente mezzo secolo dopo, con Shades on the Couch, Nespolo realizza un film apparentemente di tutt'altro genere; non solo perché alla grana sporca, instabile e palpitante della pellicola sostituisce la definizione e la pulizia (ma anche l'inevitabile piattezza) del digitale, ma anche perché qui l'assemblaggio random di immagini lascia il posto a una piccola narrazione. Sulle note di Amapola, un brano eternamente vintage e senza tempo, Nespolo si traveste da Warhol e ricostruisce un angolo della celebre Factory, con il mitico divano rosso e le pareti argentate in linea con la space age dell'epoca. Una metamorfosi che funziona come macchina del tempo, tanto che, per l'occasione, l'artista tira fuori dal garage la vecchia Renault bianca della sua gioventù, sulla quale trasportava la sfera di giornali di Pistoletto in Buongiorno Michelangelo (1968). Nel bagagliaio di questa stessa auto (tristemente famosa perché in una del medesimo modello, color rosso, dieci anni dopo ci ritroveranno il cadavere di Moro) l'artista si fece ritrarre, in una foto ormai mitica, mentre reggeva in mano la sua macchina da presa. In Shades on the Couch, oltre a sua moglie Giusi, Nespolo chiama come fugaci “testimoni” dell'evento gli amici torinesi Steve Della Casa e Sergio Toffetti, mentre le immagini trapassano dal nostalgico bianco e nero/seppia in cui è avvolta la notturna città sabauda, al vibrante colore del più famoso atelier del '900. In questo omaggio all'underground internazionale, prende forma una evidente equazione: Nespolo come Warhol, Torino come New York, il cinema come l'arte, due forme espressive che - negli Anni Sessanta - viaggiavano insieme in quanto specchio di un unico milieu culturale (meglio, contro-culturale). E il Warhol instancabile cineasta (dal '63 al '70) prima ancora che artista veniva preso a modello in Italia sia da Nespolo sia da Schifano.
Al di là del divertissement lievemente struggente di Shades on the Couch - evocazione di una irripetibile age d'or artistica -, il film sembra anche un riassunto di tutto il cinema nespoliano che, nel corso di molti decenni e attraverso una settantina di film e video realizzati, ha provato di volta in volta a spaziare dalla documentazione creativa (Boettinbiancoenero, Neonmerzare, Gli anni dell'avanguardia 1960-1970) alla narrazione surreale (Un Supermaschio, Andare a Roma, Le porte girevoli), dalla vocazione performativa (La galante avventura del cavaliere dal lieto volto, Con-certo rituale) alla riflessione sul cinema come arte fantasmagorica (Film-a-TO, Superglance, Italiana), fino al remix pubblicitario (Campari 150). Nella loro difformità, i film di Nespolo rappresentano, nel contesto del cinema sperimentale e d'artista italiano e internazionale, da un lato il recupero della tradizione dada delle Avanguardie Storiche, dove il medium filmico integra e completa una ricerca portata avanti a 360°; dall'altro la necessità di rifondare un'istanza pop, una vocazione anarchica, lontana tanto dallo strutturalismo quanto dal concettuale.

Nespolo è stato sempre in contatto con altre realtà, dal gruppo torinese di Ombre elettriche alla Cooperativa del Cinema Indipendente di area romana, eppure isolato al tempo stesso, nel suo portare avanti un cinema molto personale, lontano dalle prese di posizioni della militanza politica, in alcuni frangenti singolare, come nel caso di Un Supermaschio (1976). Neppure un artista come Mario Schifano - che, alla fine degli Anni Sessanta, ambiva al lungometraggio a soggetto vero e proprio - si era spinto verso una narrazione tanto esplicita. Ne fa fede anche il dettagliato storyboard che, in diverse occasioni, è stato esposto da Nespolo come “traccia” grafica collegata al film ma in fondo anche come opera a sé stante.
Ma il perturbante erotismo di Un Supermaschio che pure sembra essere il motore del film, così come nell'originale romanzo di Jarry, che serve solo come traccia iniziale a Nespolo, lascia ben presto il posto a una satira sul mondo dell'arte e sull'arte concettuale, in primis. Quando il protagonista compra in un negozio il testone di cartapesta di Joseph Beuys, il film prende una piega decisamente surreale e si rivolge al pubblico dell'arte che può apprezzare la sottile vis polemica: proprio lui che, a metà degli Anni Sessanta, aveva realizzato lavori definibili “protoconcettuali”, metabolizzando e superando quella fase estetica. Il protagonista del film, che attraversa Torino in periodo carnevalesco con il testone di Beuys in grembo, replica naturalmente l'azione Pistoletto di Buongiorno Michelangelo che faceva rotolare la sua palla in giro per le strade del centro cittadino. Ma qui l'oggetto del desiderio (il suo “sogno”, dice in voice over Galeno) viene portato perfino sulle giostre, proprio come fosse la sua fidanzata. Ritornato a casa, si “scopa” l'imponente simulacro con grande passione al ritmo di un valzer, sotto lo sguardo esterrefatto degli ospiti e delle ospiti escluse dai suoi giochi sessuali. Il passo successivo è quello di sposarsi il testone - che Nespolo espone ancora oggi come opera a sé intitolata, appunto, Simulacro -, dopo aver chiesto la benedizione ad un prete. Ma la reazione della comunità di “perversi” - anche stavolta ci troviamo di fronte ad una sorta di Factory - è molto dura: un misterioso personaggio (interpretato dal citato Marcello Levi, uno dei più importanti collezionisti italiani d'arte) osserva su tre monitor a circuito chiuso l'amplesso tra Galeno e Beuys, esclamando sconcertato: «Non me lo aspettavo da lui, era uno dei migliori. È terribile, è contro natura... Ha infranto le regole, deve essere soppresso!».
Galeno è naturalmente l'alter-ego dell'artista stesso (o è l'artista per antonomasia) che, innamorandosi di Beuys, tradisce la sua natura pop. Attraverso questa allegoria filmica piuttosto autoironica, Nespolo mette in scena la divertita contesa tra una teoria fredda e una pratica calda; tra i fautori del pensiero filosofico dell'arte (o di un'arte filosofica) da un lato, e i sostenitori di un'arte che sia innanzitutto divertimento estetico e coinvolgimento emozionale, dall'altro. In una sua analisi del film, Liborio Termine leggeva l'innamoramento per la scultura come la liberazione da parte del protagonista delle sue fantasie inconsce e l'accettazione della propria omosessualità. L'apologo di Nespolo, dunque, suggerisce - ma lo fa senza troppi intellettualismi, in linea con un dissacrante atteggiamento antiartistico e antidogmatico tipico del Dada - un'equiparazione tra eterosessualità/vitalismo dell'arte/estetica pop da un lato, contrapposta all'omosessualità/sterilità/arte concettuale dall'altro.
Un Supermaschio, nel suo emulare, volutamente o meno, i codici linguistici di certi b-movie erotici, diventa insomma opera d'artista sui generis nel panorama del film d'artista, ma si configura soprattutto come esempio paradigmatico di come Nespolo, pur nel quadro di un gioco citazionistico, tende a farne una sorta di manifesto contro un sistema fatto di critici, galleristi e collezionisti, rispetto al quale, forse, comincia a sentirsi inadeguato. E anche nei film successivi Andare a Roma (1976) e Le porte girevoli (1982) - quest'ultimo tratto da un soggetto cinematografico mai realizzato di Man Ray -, Nespolo non ha potuto fare a meno di mettere in scena, in modo autoreferenziale e autoironico, la figura dell'artista alle prese con i suoi dubbi e le sue ossessioni, costruendo una sorta di museo ideale (o immaginario come lo definisce Janus) che lega l'avanguardia storica alla neoavanguardia e oltre.
Non fa eccezione un piccolo film del 1994, Time After Time, in cui Nespolo si limita a filmare un minuscolo pupazzetto di gomma con le ventose, che scivola e rotola leggero sui suoi quadri, sui collage e - nella prima e nell'ultima sequenza - finanche su sé stesso, immobile allo specchio. Seguendo il percorso compiuto da questo piccolo personaggio, “animato” in modo naturale - cioè non con la tecnica del passo uno, ma semplicemente filmato nelle sue piccole evoluzioni “fisiche” reali - attraversiamo l'arte di Nespolo in modo ravvicinato, cogliendo solo dettagli di superfici, texture riccamente colorate. I quadri sono lo sfondo di un'altra possibile micronarrazione.
È un puro esercizio ginnico quello del pupazzetto o magari è una fuga che si conclude in modo circolare così com'è iniziata? A ben vedere, Time After Time è un vero e proprio autoritratto in miniatura. L'omino di gomma è proprio lui, Nespolo, che si è divertito ad attraversare con la sua arte alcuni decenni, utilizzando tutti i medium e le tecniche a sua disposizione e assegnando al cinema un posto di rilievo, una sorta di filtro da cui poter osservare il mondo con profondo entusiasmo, curiosità, leggerezza ironia. Il linguaggio cinematografico diventa allora lo strumento più adatto per dare forma ad un discorso e ad un racconto che è stato da sempre post-moderno.

L'avventura iniziata nel 1966 con la sua cinepresa 16mm Bell & Howell e con pochi caricatori di pellicola Kodak, non si è conclusa. Anzi, probabilmente, attende ancora l'arrivo di un lungometraggio (sperimentale? narrativo? entrambe le cose immaginiamo) che possa rappresentare un ulteriore punto di arrivo o di partenza, in questo infinito corpo a corpo tra immagini fisse e in movimento, che da sempre si contrappongono nel suo colorato immaginario fatto di azioni, travestimenti, assemblage videopittorici, piccole provocazioni, visioni frammentarie, tributi emozionali.
A differenza di quasi tutti gli altri artisti e pittori, soprattutto italiani, che hanno vissuto il cinema come un'inevitabile parentesi, legata sovente alle mode del periodo o all'esigenza di adoperare un medium più incisivo e immediato nei confronti del reale, Nespolo non ha mai messo da parte il dispositivo filmico; ha semmai svolto un'accurata opera di revisione e di manutenzione. Forse perché le sue immagini in movimento, perfino rispetto alla produzione artistica (che pure deve confrontarsi con le regole del mercato e del sistema), rappresentano uno spazio di libertà assoluta. «Le immagini sullo schermo filano instancabili», scriveva l'artista quarant'anni fa, citando alla fine del suo pensiero una frase di Stan Brakhage «si mostrano senza pudore, non temono la critica perché non si fidano di nessuno, tentano davvero e soltanto di far capire anche ai ciechi e ai sordi che “every filmmaker is independent at heart».

(dal catalogo della Mostra Personale, Nespolo, fuori dal coro, Milano, Palazzo Reale, dal 5 luglio al 30 settembre 2019, pp. 21-23)