ARTISTA Antologia Renato Barilli

Renato Barilli

L'"Ars Combinatoria" di Ugo Nespolo

Ugo Nespolo ha fatto da tempo la sua scelta, che è tutta a favore del mondo dell'artificio, senza temere di venirsi a trovare controcorrente in momenti in cui si tenta un ritorno allo spontaneo, al primario, al naturale. Ad avviso di Nespolo occorre riconoscere che ci muoviamo in una natura « seconda », filtrata attraverso procedimenti tecnologici, largamente sofisticata e mediata; ma è però anche suo proposito mostrare che in un universo del genere si può ritrovare una condizione aerea, aggirarvisi cioè con molta leggerezza, non assecondandolo passivamente nella sua spinta inerziale, ma anzi deviandolo alquanto dai percorsi prestabiliti. Deviazioni, scarti dalla norma, battute d'arresto che creano ovviamente un effetto ironico. Potremmo anche dire che si tratta, per lui, di ritrovare nel bel mezzo della natura artificiale una aperta condizione ludica: prendere gli ingranaggi tecnologici e fare con essi un bel gioco liberatorio; fingere di rispettarli nel loro austero impegno produttivistico, ma in realtà avviarli verso un funzionamento a vuoto, completamente gratuito.
Questo suo atteggiamento si è ormai articolato attraverso diverse fasi. Ci fu all'inizio (anni '64-'65) una fase in apparenza geometrizzante. E si sa che quel lo del la geometria sembra essere un abito di rigore per chi vuole essere al passo con l'universo moderno. Ma già in quelle occasioni quanti scarti evidenti: le forme non stavano dentro agli spazi loro assegnati, tendevano a venir fuori con effetti « concreti »; non erano più prototipi ideali puramente pensati, ma solidi e perfino ottusi oggetti materiali, da anticipare quasi le « strutture primarie ». E poi contava, ovviamente, l'atteggiamento con cui l'artista affrontava quel lavoro: non la visione olimpica del progettatore, ma piuttosto l'impegno « concreto » dell'artigiano, subito deviato in direzione « inutile »: era cioè l'atto fabbrilemanuale di chi, con la massima serietà, si dà a costruirsi un balocco fine a sè stesso ritrovando quasi una condizione infantile. Come farsi un gigantesco aeroplanino di carta o un cappello « da muratore ». Sia ben chiaro tuttavia che, fino a quel momento l'operazione ignorava la finalità iconica, restava solo l'impegno sul « fare », sul fabbricare artigianalmente delle strutture ingombranti al solo scopo del diletto.

Poi, si sa, il fine iconico salta fuori, al sopraggiungere della Pop. Nespolo non ha nessuna difficoltà ad adeguarvisi, poiché certo l'immagine « popolare » è uno degli aspetti più tipici del nostro universo « seconda » o interamente artificiale. Ma, intanto, bisognava appunto ribadire un tale aspetto mediato, derivato, togliere all'immagine qualsiasi ombra di naturalezza, di corrispondenza diretta con le cose, farne un gettone per un gioco combinatorio. Ecco allora l'opportuno sfruttamento dalla tecnica del puzzle, ovvero l'immagine scomposta in tanti « quanti » elementari, cosicché il suo emergere finale diviene un atto di volontà, una scelta anch'essa in buona misura artificiale.
Occorre cioè montare, incastrare quei vari pezzi, con atto riflesso e calcolato, se si vuole giungere all'immagine intera; questa è dunque il risultato di una somma di interventi « voluti ». E chissà, invece dell'immagine dell'aeroplanino, o del cono gelato, o del castello, o della torta, ne potrebbe nascere una del tutto diverse, solo che il giocatore decidesse di disporre in altro modo le tessere del suo puzzle.
Ancora: quelle stesse tessere sono, ovviamente, redatte con i più solidi mezzi tecnici: superfici metalliche verniciate a fuoco, cosi coma la forza che si incarica di farle coesistere su un'unica superficie non è il gesto manuale del « giocatore », bensì un'impalpabile attrazione magnetica. Se si deve giocare nell'universo tecnologico, è bene metterne a profitto tutti i più incisivi ritrovati; e il gioco stesso simula la seriosità di un'operazione militare seguita in una sala-comando spostando su un tabellone sagome di navi e di aerei.
Ma c'è di più: il mondo dell'artificio, e il repertorio di immagini cartellonistiche-popolari che ne è il corrispettivo iconico, possiedono una loro esigenza di eleganza: eleganza magari non voluta, non ricercata espressamente, accolta soltanto per eredità inconsapevole, eppure presente ed evidente. Si tratta di tutto un patrimonio di ritmi curvilinei, flessuosi, ondulati che l'ambito delle immagini ha assunto fin dal suo primo tentativo di accordo con la civiltà industriale. Questo fu al tempo dell'Art Nouveau, ove si mirava a una conciliazione tra funzionalità e surplus decorativo vitalistico; e si ripeté poi qualche decennio dopo negli anni '20 dell'Art Déco (mentre invece non ebbe alcun corrispettivo nel funzionalismo austero e puritano del Bauhaus). Ebbene, le immagini popolari dei nostri giorni, forse senza saperlo, ereditano da quei due momenti tutto un repertorio di eleganze curvilinee, che è qualcosa che oggi ha perso il suo potenziale sublimante, divenendo anch'esso estremamente cheap, a buon mercato; ma forse non perdendo del tutto un concomitante potenziale psicologico di « abito del la festa ». Se insomma si devono celebrare gli oggetti comuni del nostro mondo, non stona, anzi è conveniente abbigliarli con quei panni ricchi di curve, sapendo bene che cosi non si commette alcuna incongruenza, alcun intervento dall'alto, perché sono abiti che quegli oggetti si sono fatti da soli, rispettando tutte le leggi dell'universo artificiale.
Orgia dunque, vitalismo, ma non prevaricanti, anzi perfettamente intonati al generale clima di civiltà industriale. Che è quanto risponde all'intento permanente di Nespolo: cogliere tutte le possibilità di gioco, di distensione, ma stando dentro quell'universo, senza introdurvi dall'esterno le superiori capacità di un artista non condizionato dalle regole della produzione meccanica. in anni successivi tuttavia Nespolo lascia le « immagini », perché queste, con il relativo accompagnamento di eleganze « di pessimo gusto », sono solo uno dei volti possibili dell'universo artificiale, e neppure il più caratteristico: esso infatti si esplica molto meglio nelle funzioni piuttosto che nelle immagini. Ma anche cosi, si tratterà di recuperare quanto di festoso, o meglio di immaginativo possono evocare le funzioni stesse, e di deviarle insomma verso una destinazione ludica; ecco cosi i morsetti che stringono degli « inutili » dadi di legno policromi, ove fra l'altro ritorna il motivo del puzzle, del gioco a incastro, ma questa volta in termini totalmente aniconici. Ecco ancora un vasto repertorio di macchine che non agiscono mai per il verso giusto, ove cioè azioni meccaniche, finalità comunicative, propositi economici vengono sistematicamente trasgrediti, non senza una compiaciuta e ipocrita simulazione di serietà nel seguirne per qualche tratto l'apparente rigore funzionale.

Con ciò siamo evidentemente a un'arte di comportamento piuttosto che di oggetto, e oltretutto di comportamento « mentale », perché talune di queste macchine, si può soltanto pensare di usarle, quasi senza l'accompagnamento di qualche gesto fisico. E sarebbe allora tentante rivendicare per Nespolo una patente di antesignano dell'arte concettuale, almeno per l'Italia (cose del genere vennero da lui esposte in una mostra milanese agli inizi del '68). Ma con ciò si contraddirebbe la premessa generale da cui si è partiti, perché l'arte concettuale è anch'essa un tentativo di ritrovare lo spontaneo, il primordiale, pur con mezzi impalpabili; mentre in Nespolo c'è sempre un lungo tratto di adesione alla « macchina », e quindi il proposito di vincerla con l'arguzia piuttosto che con la distruzione e il sabotaggio.
Il « concetto » che lo intéressa è, semmai, quello tipico dell'età barocca, che infatti non si proponeva di combattere la logica in nome della fantasia e dei sensi, bensì di potenziarla oltre ogni limite, di spingerla verso un uso capzioso e iperbolico.

(Testo pubblicato nel catalogo della Mostra Ugo Nespolo, La Nuova Loggia, Bologna, febbraio 1971)
(Testo pubblicato nel catalogo della Mostra Pierino e le regole del gioco, Galleria Blu, Milano, febbraio – marzo 1975)
(Testo pubblicato su Leader, periodico di economia e cultura, gennaio-febbraio 1980 – pag 21)