CINEMA Testi critici Alberto Barbera

Alberto Barbera

Una trama complessa. Nel senso di intreccio narrativo e materico, ma anche in quello traslato di macchinazione, intrigo e frode. Tutti termini che appaiono nella finestra dei sinonimi richiamati con il pulsante destro del mouse, quando il puntatore indugia sulla parola che apre questa introduzione. Ma, anche, altrettanti significati (meno la frode, beninteso) che si prestano, con un grado di approssimazione variabile, a definire un aspetto del rapporto di Nespolo con il cinema.

Intanto perché tutto è sempre apparentemente semplice ma in realtà complicato nell’universo espressivo di questo artista. E poi perché nulla è veramente ciò che appare, secondo un principio caro alle avanguardie storiche del Novecento dalle quali egli discende, essendo stato uno dei protagonisti di quel neosperimentalismo che ha segnato la scena artistica italiana della seconda metà degli anni Sessanta. Oggi abbiamo fatto l’abitudine all’uso e all’abuso del linguaggio cinematografico da parte di artisti visivi, tanto che la videoarte non ci appare più come una semplice specializzazione della comunicazione espressiva, ma come la forma d’arte tour court della contemporaneità, destinata – si direbbe - a fagocitare tutto il resto, in una sorta di compulsione bulimica e vampiresca.

Estraneo ai rischi di quella che sembra per taluni aspetti una moda - se non altro perché la sua frequentazione del linguaggio della settima arte cominciò in tempi non sospetti - Nespolo ha incrociato il cinema un numero infinito di volte sul suo cammino. Intanto, ci sono i film veri e propri: non tantissimi (meno di venti, in oltre quarant’anni di attività), e neppure lunghi, dato che nessuno supera la soglia massima con cui solitamente s’identifica un cortometraggio. Gli ultimi suoi lavori, anzi, sono brevissimi, quasi che la sintesi gli appaia un valore in sé, più apprezzabile o forse più espressivo di tanti altri. Salvo accarezzare l’idea di realizzare prima o poi un film “vero”, per durata e standard produttivi, per il quale avrebbe già pronta la sceneggiatura, l’ambientazione, un’idea di casting e un produttore in pectore, ma non il budget, senza il quale non si può fare nulla: ma questo è ancora un altro discorso…Poi, naturalmente, a scandire la storia di questa ininterrotta passione, ci sono i quadri, le superfici dipinte, i multipli, i puzzle pittorici, gli affiches originali (realizzati per mostre e/o rassegne sue e altrui) e quelli di celebri film del passato reinterpretati grazie al suo personalissimo impulso plastico e coloristico.

Ancora, gli acrilici che ripropongono frammenti di pellicola scanditi in forma di sequenza cinematografica e, più di recente, i soft-painting che, modellando speciali soffici carte fatte a mano, combinano il fascino intrinseco dell’immagine filmica con quello tattile e visivo di una tecnica compositiva inedita.

Un vortice ininterrotto e folgorante di citazioni ed evocazioni che sono altrettante, personalissime ed affascinanti re-invenzioni, ciascuna affidata ad una tecnica diversa e ad una materia diversa (tela, legno, carta, tessuto) ma tutte egualmente sorprendenti e affascinanti. Perché il fotogramma o il manifesto del film famoso sono in qualche modo ancora lì, sotto i nostri occhi, ma già non sono più se stessi, avendo ceduto il posto alla propria traccia, al fantasma dell’idea ch’erano in origine.

Si sono trasformati in puri spunti dinamici destinati ad innescare un originale flusso creativo, pretesti che si fanno “rincorsa e stimolo di idee da recepire e da attivare, per inventare nuovi ‘paesaggi’, nuovi giochi cromatici, nuove allusioni timbriche e nuove citazioni d’occasione”, come è stato scritto.

Dalle quali non sono mai esenti sia un certo gusto per il paradosso che, soprattutto, una buona dose di ironia (meglio: di volontà irridente), che sono poi due degli elementi di fondo della poetica di Nespolo. Ma tutto ciò in qualche modo è risaputo, in virtù anche di altre ‘personali’ sul tema e dei relativi cataloghi - da ricordare, almeno, la mostra al Centre Pompidou di Parigi del 1984 e quella, più recente, di Locarno del 2003.

Qui si vuole solo precisare che l’esposizione torinese organizzata dal Museo Nazionale del Cinema non è l’ennesima ‘antologica’ che ripropone l’itinerario di uno degli artisti contemporanei più compromesso con il cinema. E’ nello stesso tempo qualcosa di più e qualcosa di meno. Di meno perché, in maniera apparentemente riduttiva, si limita a esibire una manciata di opere (gli acrilici di cui si diceva, e alcuni soft-painting), scelte fra le migliaia realizzate da Nespolo nel corso dei decenni, senza alcuna pretesa di esaustività.

Un campione certamente parziale e assolutamente arbitrario, ma in qualche modo ‘indiscutibile’ perché passato al vaglio delle predilezioni dell’autore, che infatti firma la cura della mostra. Ma è anche qualcosa di più, perché il suo nucleo, per certi versi straordinario, è rappresentato da un centinaio di lavori a modo loro inediti.

Dieci manifesti di mostre e rassegne ormai storiche ristampati su stoffa e, soprattutto, la riproduzione di decine e decine di fotogrammi tratti dai suoi film, gonfiati sino a portarli alle dimensioni di un quadro di media grandezza e ‘trattati’ (ma non tutti) in modo da diventare – ancora una volta – qualcos’altro rispetto alla loro natura originaria.

Se il principio del riciclo di materiali preesistenti, opportunamente rielaborati e parzialmente decontestualizzati, appartiene (come si diceva più sopra) alle coordinate dell’arte di Ugo Nespolo, riprendendone tecniche e procedimenti consueti in funzione del conseguimento di inedite suggestioni visive e compositive, tra gli esiti forse meno scontati di questo processo applicato al corpus storico dei suoi film c’è un inaspettato effetto documentaristico.

Dall’album fotografico di famiglia, riaffiorano con un abbacinante effetto di flagranza, figure mitiche e protagonisti indimenticati del paesaggio artistico del secolo scorso: Lucio Fontana, Enrico Baj, Renato Volpini, Alighiero Boetti, Allen Ginsberg, Michelangelo Pistoletto, Renato Volpini, Gianni Piacentino… Per non parlare degli artisti evocati o direttamente citati: Mario Merz, Man Ray, Duchamp, Satie, Picabia, Wahrol, Jarry e molti altri, coinvolti in un esercizio di ideale mappatura dei propri debiti e riferimenti ai linguaggi e alle figure dell’avanguardie storiche.

Sottratti al cinetismo mimetico garantito dall’inesorabile scorrimento a 24 fotogrammi il secondo e consegnati una volta per tutte alla fissità intemporale dell’immagine stampata, i volti noti e meno noti, le figure di un immaginario amato e condiviso, gli oggetti d’affezione ripresi o rifatti, si cristallizzano così in una sorta di ideale campionario, un repertorio di foto segnaletiche, un regesto di frammenti sparsi (ma non per questo meno eloquenti), neanche si trattasse di un capitolo degli Annales destinato a celebrare e a tramandare, in una sorta di museo virtuale della Cultura del Novecento, non la già la semplice memoria, ma la traccia più autentica e vitale - perché vissuta in prima persona - di quella straordinaria stagione artistica che ancora oggi non smette di esercitare il proprio fascino e la propria influenza.