CINEMA Testi critici Bruno Di Marino

Bruno Di Marino

Roma e Torino sono stati i due poli di una neoavanguardia artistica che è nata negli anni’60 nel nostro paese e ha avuto una immediata risonanza internazionale. In parallelo – come è accaduto anche durante la stagione delle avanguardie storiche – si è sviluppato, se non un movimento vero e proprio, un insieme di esperienze cinematografiche portate avanti dagli stessi artisti. Nel contesto romano hanno realizzato film nella seconda metà dei ’60 Schifano, Patella, Baruchello, Frascà, ma anche Angeli, Festa e Fioroni, mentre a Torino, a partire dal 1967, c’è stata in realtà una sola figura di artista che, armata di cinepresa, ha scelto il cinema come una delle principali forme espressive del suo immaginario estetico: Ugo Nespolo.

Nel panorama dell’underground torinese operano in quel periodo filmmaker come De Bernardi e il collettivo Ombre Elettriche, composto da Ferrero, Centazzo, Dogliani e Sarri. Ma a differenza della maggior parte dei colleghi della sua generazione, Nespolo è forse l’unico – fatta eccezione per Paolo Gioli – che ancora oggi continua, utilizzando il dispositivo digitale, a realizzare film sperimentali, caratterizzati da una loro coerenza stilistica e linguistica rispetto al resto della sua opera.

Potrebbe sembrare paradossale, ma l’asse Roma-Torino è stato cruciale anche per il cinema “narrativo” o industriale, in teoria qualcosa di molto distante dalla sperimentazione di cui stiamo parlando: nel capoluogo piemontese all’inizio del XX° secolo è sorta l’Ambrosio Film, una delle maggiori case di produzione dell’epoca, e in questa città furono girate negli anni del muto pellicole importanti. Ancora oggi la cultura cinematografica – insieme al sistema dell’arte contemporanea – vede in Torino un luogo cruciale, grazie al Museo del Cinema e al Festival.

Per quanto le pratiche filmiche di Nespolo attengano all’universo della sperimentazione, per comprendere meglio l’estetica filmica dell’artista torinese è necessario calarlo in questo scenario ricco di stimoli e di suggestioni visive.

Cresciuto professionalmente nell’alveo dell’Arte Povera, Nespolo ha saputo ritagliarsi uno spazio a lui più consono nell’ambito della cultura iconografica Pop, recuperando innanzitutto un rapporto con la logica sinestesica futurista (Depero in primis) e poi guardando alle coeve ricerche statunitensi, con il risultato di creare qualcosa di nuovo e di personale.

La stessa Scuola di Piazza del Popolo – è bene ricordarlo per sottolineare la specificità dell’arte italiana – è cosa diversa dalla Pop Art newyorkese. Così Nespolo da un lato si rivolge al passato, per esempio Man Ray e il dadaismo, dall’altro prende a modello Andy Warhol (così come fece anche Schifano), in quanto artista multimediale capace di far dialogare tra loro pittura, film, fotografia, immaginario pubblicitario e di massa, ma anche creando – come sappiamo – una factory, ovvero una comunità dentro cui realizzare le sue opere: un microcosmo protettivo fatto di amici, collaboratori e divi alternativi e sui generis da lanciare nel firmamento della junk culture.

Warhol, inoltre, pur girando film sperimentali e non-narrativi, ha avuto l’ambizione di fare cinema nel senso più spettacolare e popolare del termine, rifacendosi da una parte alle pellicole delle origini con le loro “azioni” minimali (dormire, mangiare), dall’altra all’immaginario hollywoodiano soprattutto di genere. Anche Nespolo, di fatto, ha costituito una sua factory, un gruppo di amici con cui ha girato i suoi film negli anni ’60 e un team con cui continua a realizzarli tuttora; inoltre il perfetto sistema organizzativo che sovrintende al suo lavoro e che si manifesta nel suo formidabile mega-atelier, è qualcosa di davvero poco italiano.

Lo stesso rapportarsi con l’immaginario cinematografico nostrano – cosa che emerge da recenti “esperimenti su commissione” come Film-a-TO, Superglance o Italiana – ci fa comprendere quanto è necessario per lui contaminare l’avanguardia con la storia del cinema più tradizionale, senza per questo sentirsi meno “artista” o meno “filmmaker indipendente”, ma filtrando e rielaborando attraverso il suo vorticoso occhio pop la cultura visuale di una città o di una nazione.

Da Grazie mamma Kodak (1966), primo test cinematografico che, già nel titolo, testimonia l’amore per lo stesso supporto pellicolare, ad oggi, Nespolo ha attraversato un arco cronologico di circa 45 anni. Non sono pochi.

Azioni e travestimenti: ripensare il Dada Fin da La galante avventura del cavaliere dal lieto volto (1967) il cinema di Nespolo emerge come pratica performativa spesso basata sul travestimento, tra il ludico e l’irriverente.

Il cortometraggio si presenta come una sorta di film-collage che assembla immagini di vario tipo: alcune sequenze sono di chiaro stampo amatoriale, altre “rubate” (si scorge per esempio Allen Ginsberg in una sua visita torinese 1), altre ancora – la parte più consistente – sono costituite da sketch girati nel parco di una villa lombarda con un gruppo di uomini e donne, tra cui spiccano due ospiti d’eccezione, gli amici artisti Enrico Baj e Lucio Fontana, vestiti come ufficiali savoiardi che sventolano una bandiera tricolore ridotta a brandelli con lo stemma della Real Casa.

Un «teatro fotografato» o «fotografico», come lo definisce lo stesso autore, un gioco demenziale improvvisato dopo un pic-nic con barbecue, che evoca il glorioso Risorgimento in salsa dada, sbeffeggia la retorica patriottica da Piccola vedetta lombarda del concittadino De Amicis, concludendosi con alcuni dei personaggi che si mostrano nudi di fronte all’obiettivo.

Le immagini de La galante avventura… sono totalmente accelerate, con alcuni interventi grafici direttamente su pellicola, scandite da un sottofondo musicale seriale e ripetitivo (vi si riconosce la base ritmica di Gimme Some Lovin’) che imprime a tutto il film l’andamento di una corsa inarrestabile. Le figurine che si muovono frenetiche davanti alla macchina da presa sono giocattoli a molla, che rimandano – volendo – all’immaginario futurista di un Depero, di cui Nespolo è appassionato collezionista.

«Il microteatro rituale sembra dissolvere riconoscimenti e verosimiglianze, non per sostituirvi mondi fantastici ma per creare spazi particolari di non senso», osserva Bertetto 2 che giudica il film di Nespolo uno dei migliori dell’avanguardia italiana insieme a La verifica incerta (Baruchello-Grifi), Umano non umano (Schifano) e Dei (De Bernardi).

Girato nello stesso anno è il più breve Le gote in fiamme, protagonista la sola Daniela Chiaperotti, già apparsa ne La galante avventura…: anche stavolta la performance si basa sul travestimento, la donna infatti si spoglia e si riveste continuamente con abiti femminili e maschili, impugnando una rivoltella, un ombrello o giocando con lo jo-jo.

Nespolo interviene nuovamente sulla texture rendendola decisamente pop grazie alla sovrapposizione di un retino che avvicina l’immagine filmica alla fotografia o alla serigrafia. Il cambio d’abiti – che diventa più fregoliano sempre grazie all’accelerazione delle immagini in fase di ripresa e al montaggio – lascia spazio ad alcuni momenti erotici, quando per esempio la Chiaperotti si stringe una tetta offrendola allo sguardo dello spettatore.

Ma più che erotico, Le gote in fiamme – «primo tentativo di quello che io chiamo poesia-magica», dice Nespolo – è decisamente slapstick e qui, come nel film precedente, l’artista sembra rivolgersi non tanto a Mekas, visto e amato anche prima dalla retrospettiva torinese del NAC del 1966, quanto piuttosto al cinema muto e, soprattutto ai film dadaisti.

Del 1968 è invece Tucci-Ucci – esperimento purtroppo oggi perduto – incentrato sulla performance culinaria del gallerista Tucci Russo, intento a preparare, mediante un laborioso rituale, la frittella “perfetta”, che una donna vestita da araba (ancora la Chaperotti) mangerà in un sol boccone sotto lo sguardo attonito del cuoco. L’evento minimale viene trasfigurato in chiave di realismo magico grazie ad una serie di trucchi, effetti e associazioni visive.

L’omaggio ad un film-chiave delle avanguardie storiche come Entr’acte, incontro tra la comicità cinematografica (Clair) e la performance artistica (Picabia), è ancora più esplicito in Con-certo rituale (1972-73), un film che appartiene a una fase più matura dell’artista torinese, il quale ha ormai abbandonato i ritmi veloci di ripresa e di montaggio, ma non la necessità di fondere la pratica del cinema underground con un ripensamento del dadaismo.

Le diverse azioni compiute in modo ripetitivo nel salone di una villa da una serie di bizzarri personaggi, che hanno tutti dei nomi precisi (ma lo scopriremo solo nei titoli di coda), costituiscono un surreale teatrino domestico, danno vita ad un “concerto”, a una jam-session, dominata da una stilizzazione burattinesca in cui le varie figure che interagiscono tra loro incarnano altrettanti simboli, icone, citazioni.

Alcuni elementi rimandano pallidamente alla realtà sociale: la siringa con cui il tipo nella cesta tenta di “bucare” gli altri astanti (la droga) e poi il fallo di gomma con cui mima lo stupro di una ragazza (la sessualità); il simbolo di cartone con la falce e martello impugnato da un altro personaggio (la politica).

E poi, naturalmente, c’è l’arte. Non è difficile riconoscere Andy Warhol (nei credits finali riportato come Andy) nel tipo col colbacco che scatta polaroid alla ragazza disponendole poi sul pavimento. Ma Con-certo rituale non presenta tanto un campionario di azioni d’artista, quanto piuttosto si configura come una parodistica messa in scena di tante piccole performance. Già qui emerge con nettezza la volontà di prendere in giro i rituali del mondo dell’arte contemporanea, satira che raggiunge il culmine nel successivo Un supermaschio.

In montaggio alternato, vediamo nel bosco Enrico Baj allestire uno strano rituale magico: sarà lui ad incarnare l’unico personaggio-film, Entr’acte appunto che, una volta entrato nel salone, proprio come nel finale del cortometraggio di Clair e Picabia, con la sua bacchetta magica fa scomparire uno ad uno i presenti, sé incluso.

Mentre la partita a scacchi tra il motociclista (l’artista Gianni Piacentino “Kawasaki Kid”) e la ragazza (“la preraffaellita”) rimanda all’altra celebre partita tra Man Ray e Duchamp sul tetto di un palazzo che vediamo all’inizio di Entr’acte, l’inserimento di cartelli che hanno la funzione di suddividere il film in capitoli e di presentare alcuni personaggi, producono lo stesso effetto di straniamento, per esempio, delle didascalie nei film di Man Ray: “Ci sono pur sempre i gerani” equivale, più o meno, al desnosiano “bisogna battere i morti finché sono freddi” di Etoile de mer: anziché essere esplicative, le frasi sono fuorvianti, rendono ancor più enigmatiche le immagini, le saturano di significato. Del resto lo stesso Nespolo parla, a proposito del suo cinema di «supplemento d’informazione», di «acculturazione casalinga dai contorni mobili».

Documentare la (neo)avanguardia
Il legame tra Nespolo e le neoavanguardia torinese si esplicita anche attraverso una trilogia di film dedicati alle opere di alcuni amici artisti, Mario Merz, Alighiero Boetti e Michelangelo Pistoletto, realizzati tra il 1967 e il 1969.

Non sono naturalmente delle semplici documentazioni, ma degli “sguardi d’artista” gettati sul lavoro di alcuni compagni d’avventura 3. Il primo di questi omaggi, Neonmerzare (1967), è praticamente astratto, dal momento che Nespolo si limita a filmare (a colori) per un paio di minuti i neon di Merz esposti nella galleria Sperone.

La macchina da presa panoramica sui tubi luminosi immersi nel buio, creando una sinfonia di forme (amplificata dal sassofono molto free di Carlo Actis Dato, che ha aggiunto la musica in una recente riedizione del film). Anche Boettinbiancoenero (1968) è basato sulle opere dell’artista esposte – stavolta nella galleria torinese Christian Stein – anche se in questo caso Nespolo non restringe l’obiettivo alle singole opere, ma lo allarga al contesto della vernice, registrando reazioni e comportamenti dei visitatori – in gran parte amici e addetti ai lavori – di fronte agli oggetti e alle installazioni.

Oltre a Boetti, si riconoscono naturalmente Pistoletto, Ceroli, Paolini, Sperone e lo stesso Nespolo che, per pochi secondi, sfila davanti all’obiettivo: ne viene fuori un film di atmosfera, dove la complicità, il gioco, lo scherzo tra i presenti, sono la migliore testimonianza di un comune sentire.

Molto diverso dai due film precedenti è Buongiorno Michelangelo (1968-69), con il quale Nespolo ritrova lo stile sincopato dei primi esperimenti. Il film inizia con Pistoletto nel suo atelier che dà gli ultimi ritocchi ad uno dei suoi quadri specchianti ma, subito dopo, usa l’opera per farsi più prosaicamente la barba. Dopo questo risveglio, usciamo fuori: Pistoletto porta in giro dalla mattina alla sera, a bordo della sua vettura decappottabile o facendola rotolare per le strade di Torino, la famosa palla composta da carta di giornali.

Dopo la palla, tocca ad un’altra opera pistolettiana, la gigantesca rosa di cartapesta che, calata con una corda dal primo piano della galleria Stein, viene anch’essa condotta a passeggio ed esibita ai passanti. Nel film appaiono tra gli altri i critici Tommaso Trini, Daniela Palazzoli, Gianni Simonetti, un altro esponente dell’Arte Povera come Gilberto Zorio, il gallerista Gian Enzo Sperone che ebbe un ruolo decisivo nel mondo dell’arte contemporanea di quel periodo.

L’arte insomma, sembra volerci dire Nespolo, è un gesto quotidiano; un’azione come tante che scandisce la nostra esistenza (dipingere è come farsi la barba). L’arte non va rinchiusa nelle gallerie, bensì deve e può essere portata in strada, in mezzo alla gente.

La palla di Pistoletto non è un’opera da sacralizzare in un museo, ma diventa un formidabile pretesto per produrre gag, un oggetto con cui giocare e ritornare bambini, al centro di un happening urbano notturno, documentato con l’immediatezza e l’agilità della cinepresa 16mm. L’importanza di questa trilogia risiede nel “doppio sguardo” che ci restituisce: da un lato si tratta, comunque, di una serie testimonianze importanti, anche perché – se si eccettua qualche programma conservato nelle teche Rai – sono sempre rari i filmati d’epoca su artisti che non avevano ancora raggiunto il successo internazionale; dall’altro evidenzia ancora di più quanto il cinema di Nespolo, oltre a porsi come pratica dell’avanguardia coeva, diventi necessariamente anche amichevole riflessione sul contesto culturale, affettuosa reminiscenza di un fare artistico condiviso.

Questi tre film restituiscono ancora oggi, intatti, i segni e gli umori del tempo. A distanza di quarant’anni esatti, con il breve Gli anni dell’avanguardia 1960-1970 (2008), Nespolo ritorna sul luogo del delitto; in occasione di una retrospettiva alla Fondazione Sandretto dedicata all’avanguardia torinese. Stavolta usa la videocamera, ma recuperando lo stile underground del passato che in realtà non ha mai dismesso nel corso degli ultimi anni, pur passando dall’analogico al digitale.

Questa sorta di spot o trailer della mostra – dove si autoinclude in quanto protagonista di quella stagione – è tutto giocato sul grandangolo che filma le opere esposte, sovrapponendo in dissolvenza incrociata le didascalie esplicative e insertandovi spezzoni della trilogia ormai divenuta essa stessa materiale di repertorio.

La musica di Actis Dato ha l’andamento di una marcetta jazz che rende più vertiginosa questa sintesi della retrospettiva “Uno sguardo su Torino tra gli anni Sessanta e Settanta” che, oltre a Merz, Boetti, Nespolo e Pistoletto, comprendeva artisti come Gilardi, Anselmo, Zorio, Calzolari, Salvo e altri.

Verso una narrazione
A metà degli anni ’70 l’esperienza del cinema d’artista in Italia è ormai in declino. La stagione dell’underground romano si era già conclusa nel 1970 con la fine della Cooperativa del Cinema Indipendente. Il passaggio al videotape, la cui natura – ai primordi – era essenzialmente documentaristica, aveva rappresentato un cambio non tanto di medium quanto di estetica.

Ci sono tuttavia diversi artisti che continuano ad usare la pellicola e tra essi Ugo Nespolo che imprime in quegli anni ai suoi esperimenti filmici una struttura più narrativa (Fagone 4 la definisce narrazione “eccentrica”, facendola iniziare con Buongiorno Michelangelo). Pur essendo molto diverse tra loro, Un supermaschio (1975-76), Andare a Roma (1976) e Le porte girevoli (1982), costituiscono tre prove filmiche più programmate, compatte e definite, ponendosi come «percorsi discorsivi più articolati e meno eversivi 5», scrive Bertetto, che fa però coincidere l’inizio di questa seconda fase del cinema di Nespolo con il Con-certo rituale.

Ad accomunare tutti e tre i film c’è la figura dell’artista (in ciascuno potremmo identificare una sorta di alter-ego nespoliano) rappresentato in un luogo privilegiato: la stanza da letto.

L’erotismo iniziale di Un supermaschio – ispirato dall’omonimo romanzo di Alfred Jarry che, nelle intenzioni di Nespolo sarebbe dovuto diventare un lungometraggio – lascia presto il posto alla parodia e al grottesco. L’incipit è già indicativo dell’ambiguità che l’artista vuole imprimere al film: lo zoom sulla villa situata tra le colline torinesi dove si svolge la vicenda, sembra alludere ad un film di suspence, ma l’inquadratura successiva, con il baule dal quale fuoriescono una donna e un uomo che suona il flauto, ci riporta semmai alla dimensione dada-surrealista dei suoi primi film.

L’atmosfera si fa decadente quando la macchina da presa ci mostra l’interno della villa con il protagonista (Galeno) nel suo letto contornato da fanciulle nude con cui ha trascorso la notte. Un supermaschio ha l’impostazione di un film a soggetto, costruito su una struttura lineare, con pochi dialoghi. Il risultato è però un curioso mélange tra fiction e performance, film d’artista e pellicola soft-core di serie b che, proprio in quel periodo, è fortemente in voga, tanto da contaminare la produzione complessiva del cinema italiano.

Quando Galeno compra in un negozio il testone di cartapesta di Joseph Beuys, il film prende una piega decisamente surreale e si rivolge al pubblico dell’arte che può apprezzare la polemica sottile, il fine divertissement che spinge Nespolo a mettere alla berlina i fanatici dell’arte concettuale. Proprio lui che, a metà degli anni Sessanta, aveva realizzato lavori definibili “protoconcettuali”, metabolizzando e superando quella fase estetica.

Galeno, che attraversa Torino in periodo carnevalesco con il testone di Beuys in grembo, replica naturalmente l’azione di Buongiorno Michelangelo, anche se narrativizzandola: il protagonista porta il suo oggetto del desiderio (il suo “sogno”, dice in voice over) perfino sulle giostre, proprio come fosse la sua fidanzata.

Ritornato a casa, si “scopa” l’imponente simulacro con grande passione al ritmo di un valzer, sotto lo sguardo esterrefatto degli ospiti e delle ospiti escluse dai suoi giochi sessuali. L’atmosfera ricorda molto la sequenza della festa orgiastica di Eyes Wide Shut 6.

Il passo successivo è quello di sposarsi il testone – che Nespolo espone ancora oggi come opera a sé dal titolo, appunto Simulacro –, dopo aver chiesto la benedizione ad un prete. Ma la reazione della comunità di “perversi” – anche stavolta ci troviamo di fronte ad una sorta di Factory – è molto dura: un misterioso personaggio (interpretato da Marcello Levi, uno dei più importanti collezionisti italiani d’arte) osserva su tre monitor a circuito chiuso l’amplesso tra Galeno e Beuys, esclamando sconcertato: «Non me lo aspettavo da lui, era uno dei migliori. E’ terribile, è contro natura… Ha infranto le regole, deve essere soppresso!».

Galeno è naturalmente l’alter-ego dell’artista stesso (o è l’artista per antonomasia) che, innamorandosi di Beuys, tradisce la sua natura Pop. Attraverso questa allegoria filmica piuttosto autoironica, Nespolo mette in scena la divertita contesa tra una teoria fredda e una pratica calda; tra i fautori del pensiero filosofico dell’arte (o di un’arte filosofica) da un lato, e i sostenitori di un’arte che sia innanzitutto divertimento estetico, coinvolgimento emozionale dall’altra.

In una sua analisi del film, Liborio Termine 7 legge l’innamoramento per la scultura come la liberazione da parte del protagonista delle sue fantasie inconsce e l’accettazione della propria omosessualità.

L’apologo di Nespolo, dunque, suggerisce – ma lo fa senza troppi intellettualismi, in linea con un dissacrante atteggiamento antiartistico e antidogmatico 8 tipico del Dada – un’equiparazione tra eterosessualità/vitalismo dell’arte/estetica pop da un lato, contrapposta all’omosessualità/sterilità/arte concettuale dall’altro.

L’epilogo – in cui Nespolo ripropone attraverso un rapido montaggio immagini di quanto accaduto in precedenza – è inevitabilmente tragico e riprende l’excipit del romanzo di Jarry: dopo essere stato collegato tramite elettrodi al testone, il supermaschio si unisce per un’ultima volta al suo sposo, morendo fulminato in un ultimo, fatale amplesso.

Nel panorama del cinema sperimentale italiano Un supermaschio rappresenta indubbiamente un caso atipico. Neppure un artista come Schifano con la sua trilogia (costituita da Satellite, Umano non umano e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani) si era spinto verso una narrazione così esplicita. Ne fa fede anche il dettagliato storyboard che, in diverse occasioni, è stato esposto dall’artista come “traccia” grafica collegata al film ma in fondo anche come opera a sé stante.

Nespolo, tuttavia, pur essendo – come sottolinea Alberto Barbera 9 – «uno degli artisti contemporanei più compromessi con il cinema» – non ambisce davvero mai al lungometraggio, rimanendo ostinatamente entro i confini di una pratica filmica “indipendente” dal mercato. O, meglio, nel 1978 tenta la strada del remake parodiando Lo spaccone, il film di Rossen con Paul Newman, ma riducendolo poi ad un breve cortometraggio di cui è l’unico protagonista.

Dell’originale film hollywoodiano ne Il faticoso tempo della sicurezza – questo il (sotto)titolo del cortometraggio – resta solo la partita a biliardo, giocata ironicamente dall’artista nella solitudine della sua casa, dopo essersi svegliato e vestito, mentre in sottofondo ascoltiamo la voce, incomprensibile poiché riproposta al reverse, tratta da un documentario tedesco.

Nella stanza dell’artista
Rispetto ad Un supermaschio la struttura di Andare a Roma è totalmente frantumata, decostruita, anche se gli eventi seguono un loro andamento lineare, con il risultato che il plot rimane enigmatico, come se i vari frammenti del puzzle (modello tanto caro a Nespolo) non riuscissero a ricomporsi.

Gli eventi ci vengono mostrati su due livelli: il primo è quello della realtà (seppure, in alcuni momenti, sembra una realtà solo immaginata); il secondo quello della rappresentazione, ovvero dell’emissione televisiva su due monitor che campeggiano al centro dello studio/camera da letto del protagonista (Galeno), ancora una volta incarnazione dell’“artista”, stavolta in compagnia di una donna incinta, di cui vediamo il suo pancione scoperto per il caldo torrido.

Il film inizia proprio con il montaggio alternato tra le immagini di velivoli sulla pista dell’aeroporto di Torino e le immagini della stanza da letto, trasmesse dai televisori e caratterizzate da un persistente disturbo di frequenza. Questa interferenza concreta rimanda sia al conflitto tra la realtà e la sua registrazione, sia al contrasto tra due dimensioni temporali (e all’ambizione utopica dell’ubiquità da parte dell’artista), ma anche all’opposizione tra due medium – ovvero il cinema e il video – proprio in un periodo cruciale che vede la diffusione del videotape tra gli artisti contemporanei.

La tv a circuito chiuso aveva già fatto la sua comparsa in Un supermaschio, ma solo – a livello narrativo – sotto forma di dispositivo voyeuristico, anche se – a livello concettuale – la scelta di Nespolo era forse anche quella di alludere alle performance di body art documentate attraverso il video. In Andare a Roma però le immagini elettroniche, di colore azzurrino e, dunque, “lunari”, scandiscono tutto il film e mescolano i piani della realtà e della narrazione, di una narrazione implosa e fuorviante: la trama procede come quella di un noir che ruota intorno alla partenza per Roma del protagonista.

Le immagini televisive se da un lato rimandano all’inflazione della cultura video nell’arte contemporanea (così come in Un supermaschio Nespolo aveva preso di mira l’arte concettuale), dall’altro ci ricordano – secondo l’idea di Baudrillard – che la televisione ha sostituito la realtà: i monitor che ci trasmettono il mondo “in diretta”, sono cioè più reali della realtà, mentre i gesti che si svolgono nella stanza dell’artista – arredata in modo cool con mobili di design e quadri pop tra cui un importante Frank Stella, invasa da riviste di arte contemporanea – sono qualcosa di rituale, quasi fuori dal tempo.

E’ come se il protagonista monitorasse ciò che avviene all’esterno, con l’illusione di poterlo dominare. Naturalmente Galeno esce anche fuori dal suo habitat vagando per i luoghi tipici di Torino: il Balôn o il mercato ortofrutticolo. Ed è in questa flanerie, in una misteriosa telefonata da una cabina pubblica, nel ritiro di un pacchetto in cui sono avvolti i pezzi di un fucile da montare, che si sviluppa l’ingannevole risvolto thriller di un film che, pur contaminando il genere, lo sabota, lo smonta dal suo interno.

Andare a Roma si conclude con un appuntamento mancato. Dopo aver pianificato il suo enigmatico progetto in ogni singolo dettaglio, l’artista si sveglia tardi e perde l’aereo per la capitale, annunciato dai due monitor di controllo. Non comprenderemo mai il vero scopo del suo viaggio, anche se probabilmente si tratta di un attentato al papa (avvenuto nella realtà il 14 maggio dell’anno precedente), dal momento che Galeno sfoglia più volte un libro con stampe e incisioni relative ai pontefici.

Dopo alcune sequenze ambientate in un poligono di tiro, vediamo l’artista puntare l’arma e sparare contro la donna incinta. Ma è un uxoricidio solo immaginato, non come quello – reale e al contempo rituale – perpetrato dall’ingegnere di Dillinger è morto di Ferreri. Roma è naturalmente un luogo simbolico, anzi in questo caso un non-luogo, uno dei terminali dell’arte contemporanea (come abbiamo già detto all’inizio) che può essere visto in un rapporto speculare con Torino. Ma questo asse non si completa e l’artista, con aria sprezzante, quasi a giustificare la sua falsa partenza, liquida Roma dicendo che «fa molto caldo in quella città di merda».

Andare a Roma mette in scena il fallimento (voluto) di una rivolta. Politica o estetica. Meglio, come suggerito da Fagone, «è la storia di un atto gratuito, proprio nel senso di Gide, che si risolve in un atto mancato (nel senso di Freud) 10». In mezzo alle riviste scorgiamo anche un catalogo sulla Conceptual Art. Ancora lei! E, in un altro punto del film, c’è una discussione in auto tra l’artista e la sua donna sulla comprensione o meno delle cose, durante la quale Galeno prende atto dell’irrazionalità del tutto e, quindi, del film stesso. L’autoreferenzialità del discorso – artistico o filmico – e la relativa impossibilità di potersi concludere con un gesto clamoroso e liberatorio, è simboleggiato dall’immagine di una cinepresa Arriflex sul cavalletto con cui si apre e si chiude il film, come a suggellare un ripiegamento su se stesso, una circolarità narrativa e concettuale: l’impotenza dell’artista ad uscire dalla sua torre d’avorio, dal sistema delle arti visive, per paura di affrontare la realtà.

Il set principale di Andare a Roma è la stanza da letto, con l’uomo e la donna in attesa di un evento: il parto per lei, la partenza per lui. E una stanza da letto, un uomo e una donna, sono al centro anche di Le porte girevoli, basato su un soggetto cinematografico di Man Ray che l’artista americano non aveva mai realizzato, manoscritto su un foglietto di carta e databile tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, sceneggiato da Nespolo insieme a Janus, amico ed esperto del maestro dadaista, nonché curatore del catalogo con tutti i suoi scritti. Di questo soggetto, che in pratica è una sorta di scaletta, resta ben poco, se non l’idea di utilizzare i collage di Man Ray e altri oggetti, poiché Nespolo lo reinventa daccapo.

La trama in sé è molto esile: una giovane donna nuda nella sua stanza da letto mangia un pomodoro (parodia di Eva che mangia la mela) e sfoglia le pagine di un catalogo che riproduce, appunto, i dieci disegni dell’artista americano che compongono la serie intitolata Revolving Doors. Questa serie, costituita prima da collages, poi da disegni, infine da dipinti, fu concepita la prima volta da Man Ray nel 1916-17, come ricorda Janus, «esse debbono il loro nome all’idea che l’opera d’arte è una porta girevole, cioè mutevole, una specie di apertura nello spazio, ma ogni apertura non è mai fissa e immobile in un luogo ben definito 11».

Nel suo letto compare l’artista (interpretato per la terza volta da Galeno) che, dopo una breve colluttazione amorosa, spalma sul volto della donna un altro pomodoro trovato tra le pagine del libro. Le lenzuola bianche diventano rosse e lei, nuovamente sola, è avvolta dalle fiamme che divampano nell’inquadratura. Breve ma estremamente raffinato nella sua messinscena onirica, Le porte girevoli è scandito dal famoso metronomo con l’occhio della persona amata, ovvero quell’objet à detruire creato da Man Ray nel 1923 e poi ricreato con una variante nel 1932, che costituisce una delle icone dell’avanguardia storica.

Insieme alla musica di Satie – altro rimando alla cultura dada-surrealista – il ticchettio del metronomo scandisce questo rituale in forma narrativa, pervaso di sottile erotismo: il rosso allude al mestruo, dunque allo sverginamento, ma il gesto compiuto dall’uomo, seguito da un bacio, può anche essere interpretato come la passione che sfocia nell’omicidio.

In Andare a Roma il fucile azionato contro la puerpera era un test, la verifica di un atto violento da perpetuare altrove; qui l’ipotetico e simbolico delitto è frutto di un meccanismo di spostamento e condensazione: subito dopo, la donna si ritrova tra le lenzuola rosse (un mare di sangue) e le fiamme in cui si dissolve, rappresentano anche la sua rinascita, come un’Araba Fenice. La fotografia di Dreossi – abituale collaboratore di Nespolo – è giocata sul chiaroscuro (la posa di spalle della ragazza ricorda molto la Venere del Velasquez, anche se è speculare), mentre la scenografia è dominata dal bianco e dal nero. Le porte girevoli – come osserva acutamente Bertetto – «ricrea un universo di citazioni nel quale ogni elemento, ogni oggetto, è in fondo una copia che rinvia ad altro, è un simulacro che vive di riflesso 12».

Viaggio intorno al cinema
Cinèphile incallito, Nespolo ha dedicato all’immaginario cinematografico alcuni film in particolare. I primi due, Film-a-To (2001) e Superglance (2005), realizzati su testi di Edoardo Sanguineti, sono rispettivamente un omaggio ai film girati a Torino e in Piemonte dal periodo del muto ai giorni nostri e una singolare visita guidata all’interno del Museo del Cinema; il terzo, Italiana (2005), allarga il campo di indagine poiché è una rievocazione del cinema italiano con un attore d’eccezione: Giancarlo Giannini. In Film-a-To Sanguineti, oltre a raccontare la storia del cinema di ambientazione “piemontese” in forma di lungo poema, accompagna con la sua presenza lo spettatore in un viaggio tra spezzoni di film vecchi e nuovi, mescolati con vedute notturne di Torino filmate da Nespolo che, naturalmente, non rinuncia ad inserire anche estratti dei suoi cortometraggi in questa fitta trama di immagini sulla quale viene intarsiata, grazie al chroma-key, la sagoma del poeta e critico letterario.

Oltre al livello dell’immagine e a quello del testo parlato, c’è un terzo livello linguistico in Film-a-To: la parola scritta; il testo di Sanguineti, tradotto in francese (il video è stato realizzato in occasione della retrospettiva Turin, berceau du cinéma italien al Centre Georges Pompidou di Parigi) diventa elemento tipografico che scorre sulla texture visiva, l’attraversa e rende ancora più musivo (ancora una volta la logica del puzzle) la struttura del film.

Così Film-a-To risponde in pieno alla fascinazione futurista per il lettering. Del resto la scrittura parolibera, che Marinetti teorizza nel manifesto Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili Parole in libertà del 1913, è assimilabile a quella cinematografica, come nota anche Wanda Strauven, poiché Marinetti «cerca di raggiungere mediante il linguaggio verbale l’immediatezza tipica del mezzo filmico: manipola le parole come oggetti (o immagini) anziché come veri e propri segni linguistici 13».

Insomma il testo parolibero richiede il movimento. Già nel Manifesto della cinematografia futurista del 1916, si contempla un simile procedimento, attraverso parole in libertà, tavole sinottiche, analogie disegnate e tavole parolibere.

Sono numerose le opere filmiche che lavorano sul lettering animato a partire dagli anni ’20: pensiamo alla sequenza animata di Ballet mécanique in cui viene scomposto un titolo di giornale.

Nespolo si rifà naturalmente a questa tradizione, collegandola anche alle esperienze che si sarebbero definite meglio negli anni ’60 come la poesia visiva o concreta. La presenza di Sanguineti non risulta dunque quanto mai appropriata in un progetto del genere e ritorna anche nel successivo Superglance, dove è soprattutto la sua voce a fare da cantore di un altro viaggio che riguarda invece la magia del cinema. Il teatro delle ombre elettriche, riassunto nelle macchine del pre-cinema esposte nelle sale del Museo del cinema, nelle videoinstallazioni tematiche che raccontano la storia e l’evoluzione del linguaggio cinematografico, diventa attraverso lo sguardo di Nespolo teatro cinetico filmato con l’obiettivo grandangolare, velocizzato, frantumato in finestre, seguendo l’idea della settimana arte come il continuo «cucire e ricucire» evocato dai versi del poeta.

La camera nespoliana in Superglance percorre lo spazio architettonico della Mole Antonelliana in lungo e in largo, in basso e in alto, per cogliere con incontenibile energia ma anche con l’approccio del collezionista (Nespolo nel suo museo-atelier conserva in teche di vetro centinaia e centinaia di cineprese di tutti i tipi), come nelle altre sue opere filmiche, l’essenza del medium.

Ben più articolato è Italiana, vero e proprio grand tour all’insegna del found-footage per le città della penisola che trasformate in set cinematografici: da Torino a Venezia, da Genova a Roma, dalla Toscana alla Sicilia. Nespolo, in questo cortometraggio prodotto da Cinecittà Holding, lavora in particolar modo sull’impaginazione, lasciando da parte gli stilemi troppo sperimentali, ma non rinunciando a tocchi garbati di lettering, sovrapponendo e “dissolvendo” Giancarlo Giannini su un flusso ininterrotto di sequenze tratte da decine e decine di film che hanno fatto grande il nostro cinema, riproposte a tutto schermo o scomposte (split-screen).

Cinema/pittura
Se, come accade spesso per molti artisti che girano film, non c’è un rapporto diretto tra il cinema di Nespolo e la propria opera pittorica, se non altro perché le sue composizioni sono staticamente molto costruite rispetto alle sue immagini in movimento, è pur vero che – viceversa – l’immaginario cinematografico in generale e quello specifico dei suoi esperimenti filmici, diventano soggetto o fonte di ispirazione per diverse serigrafie e acrilici su tela e su legno, o per immagini-puzzle ottenute con il procedimento del soft painting, ovvero uso di carte soffici fatte a mano, quindi dipinte e assemblate.

Tutto ciò secondo la logica di un progetto articolato secondo cui i fotogrammi ri-acquistano vita all’interno di composizioni pittoriche, oppure diventano la base di una rivisitazione grafica e cromatica. «Il cinema», scrive Luciano Caprile, «non è per lui solo un preteso pittorico ma diventa rincorsa e stimolo di idee da recepire e da attivare per inventare nuovi “paesaggi”, nuovi giochi cromatici, nuove allusioni timbriche 14».

L’omaggio alla storia del cinema sperimentale si esplicita attraverso una serie di opere pittoriche ispirate ad altrettante opere-chiave dell’avanguardia: da Diagonal Symphonie di Eggeling a Wavelenght di Snow, da Un chien andalou di Buñuel a Rainbow Dance di Lye, da A Movie di Conner a Flesh di Morrissey. Ma Nespolo si è divertito a citare secondo i canoni del suo stile pop fotogrammi e manifesti di film famosi, dal muto (Nosferatu, Metropolis) al sonoro (Intrigo internazionale, 2001 Odissea nello spazio).

In questo suo lavoro di selezione, riappropriazione e rielaborazione del frame che diventa (s)folgorante pittogramma, nel passaggio dal film, alla fotografia alla tela, l’artista coglie quel terzo senso di cui parla Barthes a proposito del fotogramma: scegliere un istante di una sequenza temporale - ed esattamente quello, né il precedente, né il successivo – vuol dire scovare in un movimento, in un'espressione, il senso di quell’inquadratura.

Il fotogramma, secondo lo studioso francese, non è un campione ma una citazione, «ci offre il dentro del frammento», «è il frammento di un secondo testo, il cui essere non eccede mai il frammento», arrivando perfino a dire che «film e fotogramma si ritrovano in un rapporto di palinsesto, senza che si possa dire che l'uno è il disopra dell'altro o che uno è estratto dall'altro 15».

C’è stata poi un’altra applicazione dell’arte nespoliana al regno delle immagini in movimento, e cioè – nei primi anni ’90 – la realizzazione di brevi sigle televisive per Raidue e per la neonata Raisat, diretta da Massimo Fichera, vera e propria officina di sperimentazione audiovisiva. L’artista torinese, misurandosi con l’animazione elettronica, utilizzando i sofisticati dispositivi dell’epoca (il paintbox per esempio), ha la possibilità di dare vita al suo universo in forma di collage, ricco di figure, oggetti e altri elementi stilizzati.

A lui riesce quello che in fondo a un Depero sarebbe molto piaciuto, tradurre in texture audiovisiva quelle composizioni dotate già di un loro ritmo che hanno sull’osservatore l’effetto di musica per gli occhi. Grazie alla computer graphic e animation, Nespolo – dopo la stagione più strettamente underground e prima della fase che lo vede nei panni di videomaker – trova un’ equivalenza diretta tra pittura e cinema che, sfortunatamente, non avrà un seguito ma che testimonia di un’ulteriore volontà di esplorare i confini tra immagine fissa e immagine in movimento.

Buona parte della filmografia di Nespolo – come abbiamo visto – parla inevitabilmente dell’arte e dell’essere artista. Film dopo film il maestro torinese ha costituito una sorta di museo ideale (o immaginario come lo definisce Janus) che lega l’avanguardia storica alla neoavanguardia e oltre.

Non fa eccezione un piccolo film del 1994, Time After Time, in cui Nespolo si limita a filmare un minuscolo pupazzetto di gomma con le ventose, che scivola e rotola leggero sui suoi quadri, sui collage e – nella prima e nell’ultima sequenza – finanche su sé stesso, immobile allo specchio. Seguendo il percorso compiuto da questo piccolo personaggio, “animato” in modo naturale – cioè non con la tecnica del passo uno, ma semplicemente filmato nelle sue piccole evoluzioni “fisiche” reali – attraversiamo l’arte di Nespolo in modo ravvicinato, cogliendo solo dettagli di superfici, texture riccamente colorate. I quadri sono lo sfondo di un’altra possibile micronarrazione. E’ un puro esercizio ginnico quello del pupazzetto o magari è una fuga che si conclude in modo circolare così come è iniziata?

A ben vedere, Time After Time è un vero e proprio autoritratto in miniatura. L’omino di gomma è proprio lui, Nespolo, che si è divertito ad attraversare con la sua arte alcuni decenni, utilizzando tutti i medium e le tecniche a sua disposizione e assegnando al cinema un posto di rilievo, una sorta di filtro da cui poter osservare il mondo con profondo entusiasmo, curiosità, leggerezza ironia.

Il linguaggio cinematografico diventa allora lo strumento più adatto per dare forma ad un discorso e ad un racconto che è stato da sempre post-moderno. In una conversazione con Nespolo, il filosofo Gianni Vattimo giustamente dichiarava a proposito dell’artista, la sua facoltà di «rivendicare una sensibilità postmoderna in tempi in cui ancora predominava un avanguardismo di tipo modernistico 16».

L’avventura iniziata con la Bell & Howell circa 45 anni fa, non si è conclusa. A differenza di quasi tutti gli altri artisti e pittori, soprattutto italiani, che hanno vissuto il cinema come un’inevitabile parentesi, legata sovente alle mode del periodo o all’esigenza di adoperare un medium più incisivo e immediato nei confronti del reale, Nespolo non ha mai messo da parte il dispositivo filmico; ha semmai svolto un’accurata opera di revisione e di manutenzione.

Forse perché le sue immagini in movimento, perfino rispetto alla produzione artistica (che pure deve confrontarsi con le regole del mercato e del sistema), rappresentano uno spazio di liberà assoluta. «Le immagini sullo schermo filano instancabili», scriveva l’artista trent’anni fa, citando alla fine del suo pensiero una frase di Stan Brakhage «si mostrano senza pudore, non temono la critica perché non si fidano di nessuno, tentano davvero e soltanto di far capire anche ai ciechi e ai sordi che “every filmmaker is independent at heart 17».

NOTE
1 Al poeta americano Nespolo dedica un film, A.G. del 1968, anche se in realtà mai montato.
2 Paolo Bertetto, La tradizione del nuovo nel cinema di Ugo Nespolo, in Cinenespolo, catalogo della mostra curata da Ugo Nespolo e Luciano Caprile, Locarno, Casorella, 3-31 agosto 2003, Edizioni Art’è, p. 22.
3 In quegli stessi anni Luca Patella a Roma gira il suo SKMP2 (1968), commissionato dal gallerista de L’Attico Fabio Sargentini, composto da su 4 episodi incentrasti ciascuno su un artista vicino all’Arte Povera: Kounellis, Pascali, Mattiacci e se stesso (anche se l’estetica multiforme di Patella, a differenza degli altri, non è mai stata considerata affine al movimento teorizzato da Celant).
4 Vittorio Fagone (a cura di), La fugace vita dei fotogrammi. I films di Ugo Nespolo, Mastrogiacomo Editore, Padova 1978. L’introduzione di Fagone è stata ripubblicata in Nespolo Cinema. Time After Time, Il Castoro, Milano 2008.
5 Bertetto, cit., p. 25.
6 Curiosamente Nespolo è un appassionato del romanzo Doppio sogno di Schnitzler, a cui è ispirato l’ultimo lungometraggio di Kubrick e da cui pensava di trarne un film.
7 Liborio Termine, «Cinema Nuovo», n. 242, luglio-agosto 1976.
8 Non è un caso che la casa di produzione fondata da Nespolo si chiami Antidogma Film.
9 Alberto Barbera, Introduzione a Nespolo Cinema. Time After Time, op. cit., p. 6.
10 Fagone, cit., p. 48
11 Man Ray, Tutti gli scritti, a cura di Janus, Feltrinelli, Milano 1981, p. 40.
12 Bertetto, cit., p. 24.
13 Wanda Strauven, Marinetti e il cinema – tra attrazione e sperimentazione, Campanotto Editore, Pasian di Prato (Udine) 2006, p. 140.
14 Luciano Caprile, Ugo Nespolo e il cinema, in Cinenespolo, op. cit., p. 13.
15 Le citazioni sono tratte da 51 Roland Barthes, Il terzo senso in L'ovvio e l'ottuso. Saggi critici III, Torino, Einaudi, 1985, pp. 55-61.
16 Riportata in Cinenespolo, op. cit., p. 93.
17 Ugo Nespolo, Due parole appena sul mio cinema, riportato in Nespolo Cinema. Time After Time, op. cit., p. 55.