CINEMA Testi critici Gianni Rondolino

Gianni Rondolino

Torino e il Cinema. Il cinema a Torino. Da quando il Cinématographe Lumière fece la sua comparsa a Torino nel novembre del 1896, dopo che era apparso in altre città italiane, il cinema divenne a poco a poco uno degli elementi portanti della cultura e dell'economia torinese, della vita mondana e della società del tempo.

Nel senso che, dopo i primi anni di probe e di sperimentazioni, di tentativi e di speculazioni finanziarie ovvero di lavori artigianali e di varie ricerche tecniche, a partire dalla seconda metà degli Anni Dieci del Novecento il cinema si installò a Torino come piccola industria o come alto artigianato, con strutture produttive di buon livello e attrezzature tecniche non meno rilevanti. Era una nuova forma di arte e di spettacolo, di investimenti finanziari e di mondanità, che faceva gola a molti, anche sul versante della spregiudicatezza e dell'improvvisazione.

In altre parole, con la creazione di numerose case di produzione - alcune piccolissime, altre di ampie dimensioni (come l'Ambrosio o l'Italia) - il cinema torinese non soltanto si pose sulla strada maestra della produzione seriale, commercialmente redditizia, tecnicamente pregevole, ma anche e soprattutto come punto di riferimento della produzione nazionale e internazionale. I film che uscivano dagli stabilimenti torinesi - attualità - si affermarono sul mercato interno ed esterno nel volgere di pochi anni.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, decine erano le case di produzione e centinaia e centinaia i film prodotti, con un pubblico variegato, di tutte le classi sociali, e una diffusione sul territorio capillare e articolata (nella sola Torino i cinematografi erano parecchie decine, per tutti i gusti e tutte le tasche).

Che di questa situazione si avvantaggiassero un po' tutti è cosa scontata, persino banale. La produzione cinematografica richiedeva maestranze tecniche e intellettuali, artisti, attori, scrittori, teatri di posa, investimenti. Attorno a quest'ambiente (poco torinese a dire il vero, se per torinese s'intende serie, composto, discreto, un po' grigio) ruotava la gente più diversa: avventurieri e belle donne, finanzieri e artisti mancati, giornalisti e poetastri in cerca di notorietà; ma anche industriali e attori di teatro seri e preparati, scrittori di vaglia e pittori-scenografi-costumisti di non minore valore.

Insomma, il cinema a Torino fu anche un'occasione per usciere dal tra-tran quotidiano, dall'uniformità della vita d'ogni giorno, dal lavoro in fabbrica e in ufficio, da quel grigiore di cui s'è detto. Anche se coloro che ruotavano attorno al cinema non erano poi molti, in rapporto a quella moltitudine che invece sostava davanti ai manifesti dei nuovi film, entrava nelle sale cinematografiche e ne usciva con gli occhi e la mente pieni di sogni e illusioni, ma anche di conoscenze e di informazioni.

Perché il cinema, come spettacolo popolare, fu allora una sorta di biblia pauperum, di grande repertorio visivo-dinamico di immagini d'ogni luogo e tempo, di personaggi, di eventi, di storie vere o inventate, di emozioni e sensazioni, che modificavano a poco a poco il vivere comune, le comuni abitudini, la cultura primaria.

E di questa nuova cultura visiva Torino fu allora una delle fabbriche più attive e valide, proponendo un'ampia varietà di situazioni, che a volte coinvolgevano la stessa città, i suoi abitanti, le sue diverse immagini.

Con l'apertura, per le vacanze natalizie del 1913, del Cinema Ambrosio in un palazzo di corso Vittorio Emanuele II, nel pieno centro di Torino, e con la realizzazione l'anno dopo del film Cabiria della Itala, che ebbe un successo di pubblico e di critica inusitato e divenne in breve l'esempio migliore del cinema italiano del tempo, ammirato e imitato all'estero, Torino raggiunse l'apice della sua carriera cinematografica, sul duplice versante del consumo e della produzione di film. L'Ambrosio fu la più elegante sala della città, una delle migliori d'Italia, che poso aveva da invidiare ai più bei cinematografi stranieri, e portava un nome che era il simbolo stesso del cinema torinese.

Cabiria, che Giovanni Pastore diresse con grande maestria tecnica e artistica, valendosi delle didascalie di Gabriele D'Annunzio e della musica di Ildebrando Pizzetti, fu il punto d'arrivo, grandioso e inimitabile, di un lungo lavoro di avvicinamento alla perfezione filmica, la meta finalmente raggiunga di un progetto cinematografico, più o meno cosciente, che affondava le radici nel primo cinema torinese, in quei brevi film che ci cominciarono a realizzare, con pochi mezzi e artigianalmente, a partire dal 1904.

Fu quello il decennio d'oro dei rapporti fra Torino e il cinema, con un'appendice che durò per tutti gli anni di guerra, sino alle soglie degli Anni Venti. Fu quello un incontro fatale che parve allora una breve stagione, ma che si rivelò, in prospettiva storica, la base per una ripresa, non solo produttiva - per tutti gli Anni Trenta e seguenti e soprattutto per gli Anni Novanta e oggi -, ma anche più genericamente culturale.

Nel senso che il cinema a Torino stava ormai di casa, dalle pionieristiche iniziative dei primi cineclub alla ideazione e fondazione (da parte di Maria Adriana Prolo) di un Museo del cinema, dalla creazione di riviste specializzate, di critica cinematografica, alle lezioni universitarie autogestite e poi alle prime cattedre e ai primi insegnamenti ufficiali, dai circoli del cinema affermati all'Aiace con le migliaia dei suoi abbonati-spettatori, dal Festival Cinema Giovani, poi Torino Film Festival, agli altri festival settoriali, alla Film Commission con i suoi incentivi alle produzioni di film girati nel territorio, a mille altre iniziative. Una Torino cinematografica che è ormai nota in Italia e all'estero. E la cui immagine si riflette nelle molte inquadrature che compongono i molti film realizzati in città e nei dintorni.

Certo non troviamo gli scorci di Torino, le sue vie e piazze, i suoi palazzi e viali alberati, i suoi monumenti e i suoi abitanti nelle immagini sontuose di Cabiria, un film storico ambientato negli anni della seconda guerra punica; né ritroviamo Torino nei molti film realizzati allora, spesso storici e avventurosi, melodrammatici e farseschi, girati per lo più in interni ricostruiti. Ma a scorrere quelle immagini semoventi, persino in Cabiria, qualche scorcio lo troviamo, che ci ricorda che il film è stato girato a Torino.

E poi sono soprattutto i film comici realizzati in esterno, i documentari, le attualità, qualche sequenza di altri film di genere, a darci della città una rappresentazione frammentaria ma significativa, che ora è diventata documento storico, un ricordo di un passato che non c'è più, ma di cui rimangono le tracce visibili, i luoghi della memoria.

Il parco del Valentino, le strade della collina, la periferia, questa o quella via del centro, una casa, un palazzo, una piazza, un ponte sul Po: schegge di paesaggio che ci danno la sensazione, ancor, oggi, di vivere nella città, di respirarne l'atmosfera, di coglierne il fascino discreto.

Che è poi la sensazione che ci viene dai molti film girati in seguito, a partire soprattutto dagli Anni Trenta, nei quali Torino appare magari di sfuggita, come sfondo di storie e situazioni che avrebbero potuto anche svolgersi altrove, ma che invece portano qua e là l'impronta della città.

Come, naturalmente, in Addio giovinezza (1940) di Ferdinando M. Poggioli, dalla commedia di Camasio e Oxilia; o nelle Amiche (1955) di Michelangelo Antonioni, da un racconto di Pavese; o nei Compagni (1963) di Mario Monicelli, ambientato nella Torino operaia di fine Ottocento (girato anche a Cuneo, a Zagabria e altrove); o in Trevico Torino: viaggio nel Fiat-Nam (1972) di Ettore Scvola, basato sulle inchieste giornalistiche di Diego Nevelli; o infine nella Donna della domenica (1975) di Luigi Comencini, dal romanzo di Fruttero e Lucentini.

Una Torino di volta in volta borghese e operaia normale e misteriosa, come sarà poi nei film di Dario Argento, da Profondo Rosso (1975) a Nonhosonno (2001). Ma anche una Torino quotidiana, entro la quale si snodano storie e vicende anch'esse quotidiane, dei nostri giorni, come nei film di Gianluca M. Tavanelli e di Mimmo Calopresti, in cui la città è più d'uno sfondo scenografico, è essa stessa personaggio che interagisce con gli altri personaggi, ne costituisce una sorta di dimensione logistica.

Come riuscirà a fare anche Gianni Amelio in Così ridevano (1998), una storia di immigrazione, di ricerca di un lavoro nella Torino degli Anni Cinquanta. E l'elenco potrebbe continuare spulciando qua e là in una filmografia abbondante e variegata. Ma sarebbe un discorso lungo e noioso.

Ciò che conta, e va ricordato, è che l'immagine di Torino come città del cinema non è un'immagine di comodo, quasi promozionale e in fondo provinciale. E' invece un'immagine forte, che ha una storia e oggi un presente estremamente sfaccettato e propositivo, e quasi certamente un futuro di grande respiro, nelle multiformi attività che il cinema suggerisce e propone.