CINEMA Testi critici Luciano Caprile

Luciano Caprile

Le coordinate dell’arte di Ugo Nespolo sono fornite dallo spirito “dada”, che lo ha indirizzato fin dall’inizio alla sperimentazione di tecniche e di mezzi espressivi, e da quello futurista, che lo ha indotto a introdurre nel suo fare il movimento e la vita. L’arte dunque come specchio e riflesso esistenziale, in ciò avendo come punto di riferimento Fortunato Depero.

Il nostro personaggio, dopo aver abbandonato le iniziali istanze concettuali e poveriste, si è mosso dunque come un agitatore di scene da frantumare e da rigenerare grazie a un ritmico coordinamento di colori e di luci. Janus ha scritto che un quadro di Nespolo è un corpo che invade tutto lo spazio:”Il s’agit presque toujours d’un corps qui raconte une histoire, ainsi que tous les corps, par ailleurs, qui ne réussissent jamais à rester immobiles, mais traversent notre vie de façon impérieuse”.

(1) D’altronde egli stesso confessava, in un colloquio di alcuni anni fa, che il movimento era un’esigenza operativa:”Muoversi vuol dire anche avere il coraggio di essere autentici, di non ripetersi”.(2) A questo punto il frammento di realtà diventa per lui un promemoria da custodire, da ampliare e all’occorrenza da moltiplicare in pittura. In effetti il dinamismo fa così parte delle sue caratteristiche congenite da permettergli di agire efficacemente nei vari territori dell’arte.

In tale contesto il cinema entra come forma di espressione diretta, nel senso che egli impugna la macchina da presa e inventa da par suo delle storie da tradurre sulla pellicola, e come espressione riflessa o, meglio, come veicolo di immagini da ricondurre sulla carta, sulla tela o su qualunque altro supporto.

Nel suo lavoro l’elemento ludico non solo è importante ma è addirittura essenziale per tenere alto il livello dell’immaginazione di chi fa e di chi gode lo spettacolo: il piacere della continua sorpresa accompagna il gesto, lo guida lungo i misteriosi meandri di una sorvegliata casualità.

Pertanto il frutto della meraviglia creativa di Ugo Nespolo non deriva dalla manovra di un caleidoscopio, ma dalla sapiente padronanza di un gioco sottoposto a rigorosi criteri cromatici e compositivi. La libertà è una disciplina che deve sopportare una miriade di regole per non cadere nella trappola dell’anarchia, là dove viene vanificata ogni qualità.

Nespolo è un artista libero di esprimersi in un vastissimo territorio che può accogliere il suo marchio indiscutibile ma, proprio per tale motivo, egli si sottopone a una ferrea disciplina di comportamenti che lo conducono di quando in quando a un cambiamento strutturale. Sono infatti l’omologazione, la ripetizione, l’autocompiacimento, i rischi che si corrono a farsi riconoscere attraverso una tecnica originale come la sua.

Egli desidera invece che a prevalere sia soprattutto il piacere elargito dalla qualità e dalla novità di un messaggio che colpisca l’immaginario della gente rendendola partecipe all’evento.

Da qui deriva la sua fortuna in altri campi dell’arte che coinvolgono il quotidiano e che i futuristi conoscevano così bene, in primis il menzionato Depero: gli oggetti della casa, i mobili e, fuori del contesto privato, i manifesti e altri segni della vita metropolitana, compresi i biglietti dell’autobus. Oppure invitando gli altri a interagire con le sue opere, a introdurre una parte di sé in un progetto di racconto. Così l’artista entra nel cuore e nella pelle delle persone che incontra e che finalmente possono colloquiare con lui usando un linguaggio condiviso.

Anche il linguaggio del cinema è ormai ampiamente condiviso. Non a caso Ugo Nespolo ha dedicato ai manifesti di celebri film del passato alcune folgoranti opere nel 1993 e nel 1994. Folgoranti perché riescono a estrarre l’essenza più recondita delle varie pellicole in esame ovvero offrono quell’impronta caratteristica che, diversamente dall’”affiche”, lievita, rivive e si rimodella sotto l’impulso plastico e colorico del maestro piemontese. Nella circostanza la collaudata tecnica del puzzle lascia ampio spazio alla pittura acrilica che si allarga in macchie e invade la scena per un’ulteriore fuga della fantasia intorno al nucleo parcellizzato del racconto. Nespolo sembra dunque voler catturare l’osservatore con una precisa citazione cinematografica per poi lasciarlo libero di costruire da sé e per sé l’ambiente in cui immergere la suggestione, l’emozione.

Succede per la testa in primo piano e per la città futuribile di “Metropolis” annegata in un ambito sulfureo, in un fiammeggiante divenire di pulsioni d’inquietudine. Da parte sua “Intrigo internazionale” si consuma nell’attimo in cui Cary Grant è inseguito dall’aereo e sembra non avere via di scampo nell’immensità della pianura. Il protagonista non ha volto, il corpo si confonde e si dissolve nel paesaggio frastagliato, informale.

La minaccia precipita dal cielo perlaceo, drammaticamente uniforme, su ciascuno di noi: siamo con lui mentre ci corre incontro, mentre ci consegna il testimone dell’incubo. Altrimenti Nespolo ci inchioda nel giallo abbacinante, modulato contro il fondo nero, di “Turksib” oppure depone il suo gesto ai piedi del nudo seducente de “Le porte girevoli”, un omaggio a Marcel Duchamp e a se stesso nel ruolo di regista.

Un’altra considerazione meritano gli acrilici che ripropongono frammenti di pellicola, immagini in sequenza filmica, col concorso del procedimento serigrafico da trasferire sul legno o sulla carta: si va dalla calligrafica e delicata “Diagonal sinfonie” di Eggeling alle manipolazioni accelerate dei fotogrammi di “Michael” o di “Andy”. Questo è un metodo efficace che coniuga il gusto della citazione all’impulso creativo capace di aggiungere l’emozione o l’intenzione del momento alla sospensione dell’evento dichiarato sul ritaglio di celluloide.

Appare come una trasparente volontà del nostro artista di non subire passivamente la magia del riferimento iconografico ma di riattivarla, di ricondurla al presente, al momento in cui l’evento si riaccende di fronte ai nostri sguardi. Ecco, questa riaccensione emotiva, mentale, immediata viene interpretata dall’autore con altrettanta urgenza, tale da non smarrire mai il dono della felice intuizione.

Trascorsi dieci anni Ugo Nespolo ha pensato di ripercorrere parzialmente lo stesso itinerario dei manifesti dei film avvalendosi di una tecnica compositiva che in apparenza non si discosta molto da quella attuata nella precedente occasione, ma che in effetti produce risultati di differente suggestione tattile e visiva.

La “soft painting” viene da lui ottenuta con l’uso di speciali soffici carte fatte a mano, ritagliate a puzzle, dipinte, assemblate e compresse. Le immagini galleggiano sul supporto e acquistano la loro “corposa” leggibilità con una visione leggermente distanziata. Ed è possibile assaporare i paralleli e le diversità con l’esperienza già vissuta due lustri addietro attraverso la ricostruzione anche parziale delle medesime icone.

Intanto possiamo ammirare la citazione centrale del manifesto riferibile a “Metropolis”, quindi veniamo catturati dal vibrante omaggio rivolto alla “20th Century Fox” con il dispiegamento orizzontale del celebre logo della casa cinematografica statunitense che ha conquistato emotivamente più di una generazione di spettatori in attesa dell’inizio dello spettacolo. Nespolo riesce a rinnovare ogni volta quei climi adattandoli alla sensibilità di chi guarda, lasciando ampi margini alla libera partecipazione della gente che ha così la possibilità di riannodare la personale interpretazione della pittura al “proprio” film, quello visto o da vedere o da immaginare nel buio della sala.

Il nostro personaggio, immerso nel doppio ruolo, sa dosare efficacemente le sue valenze pittoriche e filmiche cosicché è difficile capire il punto di congiunzione delle due arti o l’inizio della differenza: alcune piccole tecniche miste su carta che compaiono in mostra sono appunti in sequenza, corredati da scritti, di intenzione cinematografica e di straordinaria qualità timbrica. E allora? E allora niente. Questa è una riflessione che con Nespolo, artista totale, come abbiamo più volte avuto modo di sottolineare, non vale, non ha senso. Lo stesso ragionamento può venir applicato alla “Testa di Beuys” del 1975.

Realizzato in cartapesta e vetro, è l’elemento feticisticamente trainante di “Un supermaschio”, il cortometraggio di quell’anno; ma è anche la scultura tipica di un autore che ama andare controcorrente rivolgendosi a un’ispirazione che tiene conto di alcuni riti ma non dell’intangibilità dei miti.

In quel momento Beuys è un’istituzione intoccabile per l’ufficialità dell’arte e pertanto diviene di riflesso una preda appetibile per gli impulsi dissacratorî del Nostro. La sua pittura applicata al cinema diventa non solo un elemento nostalgico, evocativo, ma anche la palestra di nuove esperienze gestuali non limitate alla trasposizione di emozioni anche giocose ( fornite dalle tonalità e dall’intreccio combinatorio delle forme ), non racchiuse nella logica di un modulo.

Già nella precedente esperienza dei “manifesti” il suo discorso scivolava pittoricamente nella libertà descrittiva della macchia. Nella presente circostanza assistiamo a un’ulteriore indagine di tale territorio creativo: in una serie di recentissimi acrilici su tela, su legno e su carta Nespolo riprende alcuni “movimenti” sperimentati nel passato ( in “Wavelenght” o nel citato “Michael” del 1994 per esempio ) e li amplia, li accelera, li sovrappone, li insegue col colore in fuga e in dissolvenza.

L’immagine lascia il posto alla sua traccia, al fantasma dell’idea, a ciò che probabilmente rimane nella nostra mente alla fine della corsa della pellicola: l’emozione, la percezione del veduto e del vissuto. Sono le impronte di un evento simultaneo concentrato in un ideale fotogramma, in una dinamica implosione che si diffonde e si consuma sotto i nostri sguardi, e che non riusciamo più a focalizzare, a trattenere nell’attimo.

In tal caso il nostro artista fugge da se stesso per ritrovarsi o, meglio, per ritrovare quello spunto dinamico pronto a innescare il flusso creativo: il cinema non è per lui solo un pretesto pittorico ma diventa rincorsa e stimolo di idee da recepire e da attivare per inventare nuovi “paesaggi”, nuovi giochi cromatici, nuove allusioni timbriche e nuove citazioni d’occasione. Alla fine questa corsa di segni e di colori diventa frammento, come se il mondo si potesse o si dovesse concentrare in un “fractus” che contiene il tutto, come avviene per il film della vita da condensare e da consumare in un attimo.

Se ne coglie qualche indizio decifrabile tra le rotelle di “Wheels in the dark” o tra le ombre diluite nell’incerto dialogo di “Scorpio rising”. Altrimenti siamo in balia del sussulto parossistico di “Frozen frame” o dell’evanescenza onirica di “Balletto leggero” o dell’orizzonte plumbeo di “Easy vertov”.

E’ un territorio fertile per la fantasia di chi interpreta la scena e per l’avventura di chi introduce nel racconto la personale sensibilità da plasmare o da violare secondo occasione e partecipazione, proprio come succede in una sala di proiezione nel momento in cui si prepara e si nutre il mistero dell’attesa. Nella circostanza Nespolo condensa tutto il vissuto in questo fotogramma da imprimere nella mente, da leggere e da interpretare attraverso gli accumuli e gli slittamenti di forme e di intuizioni.

Se in precedenza la tecnica del puzzle gli permetteva di ricompattare i tasselli di un evento, ora l’evento è compresso o dilatato o sfuocato affinché ciascuno lo accolga nella sua compiutezza narrativa e lo faccia suo estirpandolo da un destino di incomunicabilità, al di là della traccia, dell’appiglio o dell’esca lanciati dall’autore.

Sembrerebbero tante trame di film, invece sono film di vita, sono gesti di speranza o di perdizione. Come sempre Nespolo usa l’allegoria gioiosa delle immagini per introdurre i temi dell’esistenza e dell’inconscio di ciascuno. Se invece vogliamo ancora tornare agli esaltanti cartelloni pubblicitari rivisitati con nostalgica passione attraverso l’annunciata tecnica del “soft painting”, possiamo felicemente approdare a un recentissimo “Nosferatu” suggerito da un grande “legno” del 1994, mentre con “Effi Briest” si riassapora l’obliquo piacere della seduzione accentuato dal rinnovato, sensuale abbandono dei due innamorati che rappresentano lo spirito di “The devil of woman”.

Ugo Nespolo è questo ed è quello: Ugo Nespolo è ciò che noi vogliamo essere in quel preciso momento della nostra esistenza rintracciato nella sua opera. Non si sfugge: dove è lui siamo noi; là , in frazioni da ricomporre o in allegorie da svelare, scorre il film che appartiene alla nostra vita.

Note
1) Janus, “Nespolo. Le cinéma diagonal”, Centre Georges Pompidou, Parigi, 1984 “Si tratta quasi sempre di un corpo che racconta una storia, come tutti i corpi, d’altronde, che non riescono mai a rimanere immobili, ma attraversano prepotentemente la nostra vita“.
2) Luciano Caprile, “ In movimento”, Mastrogiacomo Ed ., Padova, 1990 p. 5