CINEMA Testi critici Marco Giusti

Marco Giusti

Certo. Allora si poteva fare cinema con tutto. O quasi. O quasi-cinema. Bastava partire alla scoperta del cinema con la 16 mm, anzi, come diceva Ugo Nespolo, con la Bell & Howell 16 mm con lo zoom Angenieux e essere fortunati. Ovvio che parte della fortuna era anche poter inquadrare gli amici, gli artisti, i poeti, i critici, le gallerie, le strade.

Magari, come diceva Glauber Rocha, per fare del cinema erano sufficienti “una camera nella mano e un’idea nella testa”. Meglio se quell’idea era tutta una poetica o almeno la ricerca di un nuovo linguaggio. Ma chi non cercava, allora, un nuovo linguaggio o non aveva una sua poetica? Forse proprio per quello bastava riprendere i volti degli amici del tempo per fare del cinema, o dell’arte, o della poesia... Eppure c’è un fascino in queste immagini d’artista o in questi artisti ripresi per immagini negli anni ’60 che non riusciamo a spiegarci coi modelli consueti di critica cinematografica.

Anche perché ci riportano a un mondo, oggi così lontano, dove gli incontri stessi tra gli artisti formano come nuovi scenari dando vita a situazioni artistiche più forti delle singole ricerche personali.

Un gioco di specchi che moltiplicano il fascino del tempo e le singole creatività. E le immagini, di chi filma e di chi è filmato, e ovviamente delle opere riprese, sembrano già fare parte di future riscritture artistiche. Al punto che perfino la tua Bell & Howell 16 mm, la tua camera nella mano, potrà diventare un’opera d’arte.

La nostra visione, a quarant’anni di distanza, ci mostra quanto fossero coscienti della propria ricchezza e ricchi della loro ingenua freschezza gli artisti della nostra avanguardia negli anni ’60. E quanto fosse importante, alla fine per tutti, quella “scoperta del cinema” tentata, ad esempio, da Ugo Nespolo e vissuta, fin da allora, come parte integrante sia della poetica di un gruppo che della sua poetica artistica personale. E quindi difficilmente separabile dalla sua produzione d’arte, che finisce per inglobare lì oggetti e soggetti del suo cinema.

Tutto appare finalmente chiaro nel momento in cui il lavoro cinematografico di Nespolo si storicizza, anzi si musealizza e trova nuova forma visiva assieme alle foto d’epoca e alle opere degli amici di un lungo percorso in un film all’apparenza riassuntivo, “Gli anni dell’avanguardia 1960 - 1970”.

In qualche modo è lì che l’occhio critico, creativo, fraterno di un artista-cineasta che ha seguito fin dai suoi inizi una grande stagione dell’avanguardia italiana, e torinese in particolare, si svela in tutta la sua realtà e sincerità, riproponendo nella sua essenzialità e complicità il gioco degli specchi tra compagni di viaggio.

E andando oltre il puro piacere del ritrovamento frammentario delle opere e dei volti di certi artisti, galleristi, critici, amici in quella Torino magica della metà degli anni ’60. Un piacere, ovvio, che pure sta alla base del nostro rapporto con questi apparentemente piccoli, fragili film che sembrano provenire dalle pieghe più nascoste della nostra memoria storica e passionale.

Un qualcosa che se anche non avessimo visto e vissuto sapevamo che da qualche parte esisteva e prima o poi sarebbe riapparsa, in tutta la sua freschezza. Così come può apparire, non documentata da nessun codice, un’intervista di Lucio Fontana nelle Teche della Rai, una pubblicità di Pino Pascali, un Michelangelo Pistoletto performer, un Boetti al mare con Anne-Marie in bianco e nero (esiste, esiste...), uno scombinato tre-quarti-di-pollice (si dice così) degli igloo di Mario Merz a metà degli anni ’70. Ma nel nostro album di figurine del mondo dell’arte italiana, spesso costruito proprio pezzo per pezzo, il cinema di Nespolo gioca pesante e mostra addirittura un Lucio Fontana attore in una lettura deamicisiana a colori, “La galante avventura del cavaliere dal lieto volto” (1966), che unisce al cinema sperimentale americano visto in quegli anni la lezione del muto piemontese degli esordi.

Riprende i neon di Merz a colori, “Neonmerzare” (1967), come se formassero un film animato. Costruisce come una performance il vernissage di una mostra storica di Alighiero Boetti a Torino nella Galleria Christian Stein, “ Boettibianchenero” (1968). Filma come una comica l’esibizione artistico-culinaria di un amico gallerista, Tucci Rosso, nell’ahimé perduto “Tucci – Ucci” (1968).

Riprende il guru Allen Ginsberg in missione a Torino, “A.G.” (1968). Ci mostra Michelangelo Pistoletto in viaggio con la sua Sfera fatta di giornali per le vie di Torino in uno dei documenti più belli dell’Arte Povera che ce ne conserva tutta la sua forza e allegria, “Buongiorno, Michelangelo” (1968-69).

Ovviamente costruisce film di ricerca più personali, come “Le gote in fiamme” (1967). Tutto questo in due-tre anni fondamentali per il nostro paese e per la nuova avanguardia italiana, mentre sotto ai nostri occhi passa di tutto, il 68, la digestione di Godard, la rilettura di Rossellini, l’arrivo di Glauber Rocha in Italia, il cinema e i film di Bertolucci, Bellocchio, Leone, Bene, Pasolini, il “Satyricon” di Fellini.

Il nostro cinema sperimentale, Schifano, Grifi, Leonardi, Bargellini è in qualche modo schiacciato dalla presenza di cineasti così forti e deve percorrere strade, soprattutto distributive, marginali. Anche perché chi cerca strade diverse, come Sandro Franchina, che fa del suo primo film, “Morire gratis” (1967), interpretato da Franco Angeli, un road movie ambientato nell’Italia del mondo dell’arte, finisce per frantumarsi contro la critica militante del tempo che bolla l’operazione come non politica, e ne decreta la morte distributiva. Ma in genere, Schifano a parte (e, in fondo, neanche lui), il nostro cinema d’arte rimane più o meno un oggetto non definibile. Non adatto ai festival, non adatto alla tv.

Per nulla amato dal mondo del cinema, che ne vede una carica negativa nella sua non ideologia politica, nella sua non scrittura tradizionale. E, in fondo, poco utilizzabile anche nel mondo dell’arte, non ancora esponibile nelle Biennali e nelle grandi mostre nazionali. Non ancora vendibile come film-opera.

Non ancora diventato “video”. Per giunta, orrore degli orrori, reo della massima colpa: la contaminazione. In un mondo dove, specialmente dopo il ’68, non era più possibile muoversi tra cinema e arte, pubblicità e arte, tv e arte. O di qua o di là. Il sistema culturale italiano non era, e non è mai stato molto elastico.

Così nessuno, tra i giovani critici cinematografici di allora (mi sbaglio?), vide questi lavori, e pochi tra i giovani critici d’arte li accettò come opere. Insomma o fai del cinema o fai dell’arte. Non puoi mescolare le carte coi collage (mentali-intellettuali). Anche per questo le grandi esperienze di quasi-cinema di Nespolo, come di Pascali e dello stesso Schifano, si fermano più o meno lì, nel vortice meraviglioso degli anni ’60.

Nespolo porterà avanti nei ’70 degli esperimenti di cinema d’artista più legati alla propria opera e meno legati a un gruppo, meno, diciamo da cine-occhio militante. Pensiamo ai notevoli “Un supermaschio” (1975-76), “Andare a Roma” (1976), “Il faticoso tempo della sicurezza” (1978), “Le porte girevoli” (1982), che dimostrano il desiderio di costruire una propria poetica cinematografica continuando a rileggere assieme il mondo dell’arte e quello del cinema.

Ma è evidente che molto è cambiato dello scenario, soprattutto artistico, della Torino degli anni ’60 e di quel continuo scambio di sguardi che allora era possibile. Per di più non esisteva più la poetica del cinema fatto con la 16 mm. La nascita del video, inoltre, complicava le cose, soprattutto da un punto di vista teorico, pur moltiplicando le possibilità.

Proprio gli schematismi dei mondi del cinema, dell’arte, e infine del video, sembrano limitare i desideri di sconfinare dai propri territori di artisti non regolari, non etichettabili come Nespolo. Bloccandone così uno degli aspetti più forti e davvero irregolari, cioè l’allegria. La capacità di spostarsi da un piano all’altro della macchina da presa, di giocare con le proprie immagini.

Quel che resta, però, non è poco. E’ il corpo, ancora intatto, pulsante, di un cineasta-cineartista che cerca di mettere in scena il suo stesso processo creativo, spesso toccando-sfiorando-filmando altri corpi dello stesso tipo. E’ cinema.