Certo. Allora si poteva fare cinema con tutto. O quasi. O quasi-cinema. Bastava partire alla scoperta del cinema con la 16 mm, anzi, come diceva Ugo Nespolo, con la Bell & Howell 16 mm con lo zoom Angenieux e essere fortunati. Ovvio che parte della fortuna era anche poter inquadrare gli amici, gli artisti, i poeti, i critici, le gallerie, le strade.
Magari, come diceva Glauber Rocha, per fare del cinema erano sufficienti âuna camera nella mano e unâidea nella testaâ. Meglio se quellâidea era tutta una poetica o almeno la ricerca di un nuovo linguaggio. Ma chi non cercava, allora, un nuovo linguaggio o non aveva una sua poetica? Forse proprio per quello bastava riprendere i volti degli amici del tempo per fare del cinema, o dellâarte, o della poesia... Eppure câè un fascino in queste immagini dâartista o in questi artisti ripresi per immagini negli anni â60 che non riusciamo a spiegarci coi modelli consueti di critica cinematografica.
Anche perché ci riportano a un mondo, oggi così lontano, dove gli incontri stessi tra gli artisti formano come nuovi scenari dando vita a situazioni artistiche più forti delle singole ricerche personali.
Un gioco di specchi che moltiplicano il fascino del tempo e le singole creatività . E le immagini, di chi filma e di chi è filmato, e ovviamente delle opere riprese, sembrano già fare parte di future riscritture artistiche. Al punto che perfino la tua Bell & Howell 16 mm, la tua camera nella mano, potrà diventare unâopera dâarte.
La nostra visione, a quarantâanni di distanza, ci mostra quanto fossero coscienti della propria ricchezza e ricchi della loro ingenua freschezza gli artisti della nostra avanguardia negli anni â60. E quanto fosse importante, alla fine per tutti, quella âscoperta del cinemaâ tentata, ad esempio, da Ugo Nespolo e vissuta, fin da allora, come parte integrante sia della poetica di un gruppo che della sua poetica artistica personale. E quindi difficilmente separabile dalla sua produzione dâarte, che finisce per inglobare lì oggetti e soggetti del suo cinema.
Tutto appare finalmente chiaro nel momento in cui il lavoro cinematografico di Nespolo si storicizza, anzi si musealizza e trova nuova forma visiva assieme alle foto dâepoca e alle opere degli amici di un lungo percorso in un film allâapparenza riassuntivo, âGli anni dellâavanguardia 1960 - 1970â.
In qualche modo è lì che lâocchio critico, creativo, fraterno di un artista-cineasta che ha seguito fin dai suoi inizi una grande stagione dellâavanguardia italiana, e torinese in particolare, si svela in tutta la sua realtà e sincerità , riproponendo nella sua essenzialità e complicità il gioco degli specchi tra compagni di viaggio.
E andando oltre il puro piacere del ritrovamento frammentario delle opere e dei volti di certi artisti, galleristi, critici, amici in quella Torino magica della metà degli anni â60. Un piacere, ovvio, che pure sta alla base del nostro rapporto con questi apparentemente piccoli, fragili film che sembrano provenire dalle pieghe più nascoste della nostra memoria storica e passionale.
Un qualcosa che se anche non avessimo visto e vissuto sapevamo che da qualche parte esisteva e prima o poi sarebbe riapparsa, in tutta la sua freschezza. Così come può apparire, non documentata da nessun codice, unâintervista di Lucio Fontana nelle Teche della Rai, una pubblicità di Pino Pascali, un Michelangelo Pistoletto performer, un Boetti al mare con Anne-Marie in bianco e nero (esiste, esiste...), uno scombinato tre-quarti-di-pollice (si dice così) degli igloo di Mario Merz a metà degli anni â70. Ma nel nostro album di figurine del mondo dellâarte italiana, spesso costruito proprio pezzo per pezzo, il cinema di Nespolo gioca pesante e mostra addirittura un Lucio Fontana attore in una lettura deamicisiana a colori, âLa galante avventura del cavaliere dal lieto voltoâ (1966), che unisce al cinema sperimentale americano visto in quegli anni la lezione del muto piemontese degli esordi.
Riprende i neon di Merz a colori, âNeonmerzareâ (1967), come se formassero un film animato. Costruisce come una performance il vernissage di una mostra storica di Alighiero Boetti a Torino nella Galleria Christian Stein, â Boettibiancheneroâ (1968). Filma come una comica lâesibizione artistico-culinaria di un amico gallerista, Tucci Rosso, nellâahimé perduto âTucci â Ucciâ (1968).
Riprende il guru Allen Ginsberg in missione a Torino, âA.G.â (1968). Ci mostra Michelangelo Pistoletto in viaggio con la sua Sfera fatta di giornali per le vie di Torino in uno dei documenti più belli dellâArte Povera che ce ne conserva tutta la sua forza e allegria, âBuongiorno, Michelangeloâ (1968-69).
Ovviamente costruisce film di ricerca più personali, come âLe gote in fiammeâ (1967). Tutto questo in due-tre anni fondamentali per il nostro paese e per la nuova avanguardia italiana, mentre sotto ai nostri occhi passa di tutto, il 68, la digestione di Godard, la rilettura di Rossellini, lâarrivo di Glauber Rocha in Italia, il cinema e i film di Bertolucci, Bellocchio, Leone, Bene, Pasolini, il âSatyriconâ di Fellini.
Il nostro cinema sperimentale, Schifano, Grifi, Leonardi, Bargellini è in qualche modo schiacciato dalla presenza di cineasti così forti e deve percorrere strade, soprattutto distributive, marginali. Anche perché chi cerca strade diverse, come Sandro Franchina, che fa del suo primo film, âMorire gratisâ (1967), interpretato da Franco Angeli, un road movie ambientato nellâItalia del mondo dellâarte, finisce per frantumarsi contro la critica militante del tempo che bolla lâoperazione come non politica, e ne decreta la morte distributiva. Ma in genere, Schifano a parte (e, in fondo, neanche lui), il nostro cinema dâarte rimane più o meno un oggetto non definibile. Non adatto ai festival, non adatto alla tv.
Per nulla amato dal mondo del cinema, che ne vede una carica negativa nella sua non ideologia politica, nella sua non scrittura tradizionale. E, in fondo, poco utilizzabile anche nel mondo dellâarte, non ancora esponibile nelle Biennali e nelle grandi mostre nazionali. Non ancora vendibile come film-opera.
Non ancora diventato âvideoâ. Per giunta, orrore degli orrori, reo della massima colpa: la contaminazione. In un mondo dove, specialmente dopo il â68, non era più possibile muoversi tra cinema e arte, pubblicità e arte, tv e arte. O di qua o di là . Il sistema culturale italiano non era, e non è mai stato molto elastico.
Così nessuno, tra i giovani critici cinematografici di allora (mi sbaglio?), vide questi lavori, e pochi tra i giovani critici dâarte li accettò come opere. Insomma o fai del cinema o fai dellâarte. Non puoi mescolare le carte coi collage (mentali-intellettuali). Anche per questo le grandi esperienze di quasi-cinema di Nespolo, come di Pascali e dello stesso Schifano, si fermano più o meno lì, nel vortice meraviglioso degli anni â60.
Nespolo porterà avanti nei â70 degli esperimenti di cinema dâartista più legati alla propria opera e meno legati a un gruppo, meno, diciamo da cine-occhio militante. Pensiamo ai notevoli âUn supermaschioâ (1975-76), âAndare a Romaâ (1976), âIl faticoso tempo della sicurezzaâ (1978), âLe porte girevoliâ (1982), che dimostrano il desiderio di costruire una propria poetica cinematografica continuando a rileggere assieme il mondo dellâarte e quello del cinema.
Ma è evidente che molto è cambiato dello scenario, soprattutto artistico, della Torino degli anni â60 e di quel continuo scambio di sguardi che allora era possibile. Per di più non esisteva più la poetica del cinema fatto con la 16 mm. La nascita del video, inoltre, complicava le cose, soprattutto da un punto di vista teorico, pur moltiplicando le possibilità .
Proprio gli schematismi dei mondi del cinema, dellâarte, e infine del video, sembrano limitare i desideri di sconfinare dai propri territori di artisti non regolari, non etichettabili come Nespolo. Bloccandone così uno degli aspetti più forti e davvero irregolari, cioè lâallegria. La capacità di spostarsi da un piano allâaltro della macchina da presa, di giocare con le proprie immagini.
Quel che resta, però, non è poco. Eâ il corpo, ancora intatto, pulsante, di un cineasta-cineartista che cerca di mettere in scena il suo stesso processo creativo, spesso toccando-sfiorando-filmando altri corpi dello stesso tipo. Eâ cinema.