CINEMA Testi critici Paolo Bertetto

Paolo Bertetto

“Partii con la Bell and Howell 16 millimetri con lo zoom Angenieux alla scoperta del cinema e fui fortunato”, dice Nespolo ricordando la sua decisione di fare cinema. All’inizio del cinema di Nespolo c’è la volontà di sperimentare liberamente la macchina da presa e l’apparato tecnico e di mettersi alla prova come autore.

Il cinema è un campo aperto, una possibilità di ricerca e al tempo stesso un’esperienza ludica, è un’estensione della produzione artistica e un linguaggio apparentemente leggero che può piegarsi ad esperienze diverse. Come Ma Ray e Duchamp, ma anche come Warhol e Joseph Cornell, Nespolo è un artista visivo che fa del cinema e inventa nuove forme di rapporti e di linguaggi, nuove cerimonie di aggregazione ma anche nuove logiche di ricerca.

La situazione culturale degli anni Sessanta è favorevole tanto alla riaffermazione dello spirito dell’avanguardia quanto al riconoscimento della rilevanza del neosperimentalismo. La grande affermazione dell’underground americano, come l’importanza crescente dei più radicali movimenti di esperienza artistica (dal new dada alla pop art all’arte povera) e letteraria (Gruppo 63 in Italia, nouveau roman e “Tel Quel” in Francia), creano un clima culturale che stimola la genesi di una ricerca filmica, a Torino come a Roma, a Napoli come a Milano.

La sperimentazione cinematografica in Italia si sviluppa nella seconda metà degli anni Sessanta lungo due diverse linee: da un lato, è la ricerca di artisti visivi che intendono misurarsi anche con il linguaggio del cinema; dall’altro, è l’opzione di appassionati di cinema esterni al circuito produttivo che, sull’onta della libertà radicale dell’avanguardia americana, iniziano una creazione visionaria e autoespressiva legata a forme di vita alternative.

Torino è uno dei centri propulsivi del cinema sperimentale: non a caso ospita nel 1966 una grande manifestazione dedicata all’underground presentata da Jonas Mekas e Taylor Mead, che entusiasma giovani e intellettuali marginali spingendoli a fare cinema con la massima libertà. Negli stessi anni, Torino è anche il luogo di una ricerca artistica estremamente vivace, raccolta attorno al gruppo dell’arte povera e destinata ad un grande successo internazionale.

In questo orizzonte particolare inizia il rapporto di Nespolo con il cinema, come un gesto, una deiezione automatica insieme elementare e impregnata di volontà d’arte. “Partii con la Bell and Howell” è il gesto più immediato e disarmato e nello stesso tempo il più carico di autoaffermazione e di Kunstwollen. Perché vuol dire riprendere liberamente e magari per gioco qualsiasi cosa indifferentemente e, per la sola ragione di averlo fatto, inscriverla nell’orizzonte artistico.

C’è in questo atteggiamento costitutivo del fare cinema di Nespolo una duplice radice fondante, di differente origine e qualificazione. Da un lato c’è la tradizione alta dell’arte del Novecento che, nello sviluppo rigoroso di una ricerca che inventa in fieri la propria la propria struttura e le proprie regole, tende ad attribuire all’atto creativo di un artista uno statuto di riconoscimento estetico. Dall’altro c’è, più in particolare, la logica dada di affermazione immediata del gesto e della creazione (dada) come evento e oggetto artistico-antiartistico dotato di un valore epocale intrinseco e inscritto in un processo di simbolizzazione particolare.

E’ il gesto duchampiano, che sembra riflettere il grado zero dell’esistente e nello stesso tempo caricarsi di un’infinita valenza concettuale ed estetica. E’ l’essere qui dell’oggetto dada, mera presenza, ottusa ed enigmatica insieme, e discorso in re sui massimi sistemi dell’arte.

Nespolo comincia il suo cinema dentro questo meccanismo di autoriconoscimento e di definizione strutturale della propria operatività, con una serie di gesti filmici che diventano significativi proprio nell’ottica della gratuità ipersignificante del new dada. In Grazie mamma Kodak (1966), suo primo film, il gesto di riprendere particolari irrilevanti dell’esistente, o microcerimonie visitate in chiave ironica, incontra altri materiali irrilevanti in un collage apparentemente grezzo e irridente: segmenti di film di Dracula e di Flash Gordon si intrecciano con immagini di un’attrice improvvisata che gioca con la macchina da presa, inventando smorfie e sberleffi che Nespolo propone con ralentis e accelerazioni.

Non si tratta però di una destrutturazione del linguaggio cinematografico con una finalità di ricerca formale. Nespolo non intende seguire quel metodo di “smontaggio e riordinamento” del gesto che Barthes considerava “l’attività strutturalista per eccellenza”, ma al contrario punta a creare giochi di non sense, avventure ludiche in cui è la pura invenzione, magari assurda, paradossale, provocatoria, a motivare il film.

Le gote in fiamme (1966) sotto questo profilo è ancora più significativo. La stessa attrice di Grazie mamma Kodak, Daniela Chiaperotti, si sveste e riveste ossessivamente, iterando i medesimi gesti, il medesimo rituale in una ripetizione grottesca che perde ogni rapporto con il senso. E’ ancora una volta un atto new dada, in cui il gratuito è elevato a cifra di una riflessione indiretta sui confini dell’artistico e ove riconoscibilità e valori estetici paiono perdersi.

Questa esibizione del gratuito, questa riaffermazione del potere paradossale dell’irrilevante, questa ricerca neodadaista del non senso diventa con La Galante avventura del cavaliere dal lieto volto (1967) una mirata esperienza ludica, in cui il non senso e la raffinatezza del gioco linguistico determinano un salto di qualità assolutamente particolare.

Girato in Lombardia, in un parco dagli alberi frondosi, con Baj e Fontana generali non credibili, il film è un’ironica e gratuita rivisitazione di un improbabile Risorgimento, che oscilla con metodo tra Risolini e il non senso.

Il movimento frenetico dei personaggi, i gesti velocissimi, le azioni disordinate e inutili creano un ritmo rapido e intenso, che realizza un grande paradosso visivo. La Galante avventura del cavaliere dal lieto volto è indubbiamente un film d’avanguardia variante composito, che attesta una specifica capacità di sfruttamento della tecnica e del linguaggio cinematografico. Nel film confluiscono in ogni modo logiche compositive e opzioni formali estremamente differenziate.

La Galante avventura del cavaliere dal lieto volto è innanzitutto un film d’artista interpretato da artisti come Baj, Fontana e Volpini, secondo una tradizione elettiva del cinema d’avanguardia (Duchamp e Man Ray, Satie e Picabia in Entr’acte, Richter, Graeff e Hindemith in Vormittagspuk). Baj, Fontana e Volpini si prestano ai giochi, ai paradossi e all’ironia di Nespolo con l’aria stralunata, improbabile e complice della migliore tradizione duchampiana.

La loro presenza è essenziale non tanto per dissacrare un Risorgimento e un De Amicis già ampiamente dissacranti, ma per disgregare l’orizzonte stesso delle referenze e delle credibilità. Il microteatro rituale sembra dissolvere riconoscimenti e verosimiglianze, non per sostituirvi mondi fantastici ma per creare spazi particolari di on senso. Il mondo inventato, le prestazioni d’attore di artisti come Fontana e Baj, i travestimenti e i paesaggi improbabili sono ripianificati visivamente e trasformati dal ricorso all’accelerazione delle immagini e alla ripresa a passo uno.

La volontà di realizzare effetti ludici e di disegnare un mondo inverosimile spinge Nespolo a sviluppare una sperimentazione linguistica estremamente variata e ricca di soluzioni visive. Da un lato Nespolo ricorre a un montaggio dinamico che coordina e/o giustappone inquadrature brevi in una banda spesso frammentata; dall’altro potenzia con grande efficacia le tecniche dell’accelerazione e dello scatto singolo per avere una visione sincopata dei movimenti e degli eventi, con effetti grotteschi e ironici. Il risultato è una scrittura-visiva della migliore tradizione sperimentale.

Inoltre Nespolo lavora variamente l’immagine effettuando disegni, macchie, graffiature direttamente sulla pellicola, con il risultato di rendere estremamente mobile e variabile la visione.

E’ come se l’immagine avesse un surplus di qualificazione visiva: oltre all’oggetto ripreso, una mobilità supplementare e incontrollabile di segni elaborati o di graffiti grezzi in libertà si stende sulla superficie visibile creando una sorta di balletto irragionevole che ricorda i dinamismi non programmabili delle puntine da disegno e del sale in Retour e la raion di Man Ray o le graffiature di Reflections on Black di Brakhage.

L’operazione assume una doppia connotazione: da un lato è legata alla produzione di effetti visivi particolari, si somma al montaggio rapido, allo scatto singolo, attestando un livello di particolare rielaborazione linguistica: dall’altro riflette una volontà di dissacrazione, di understatement ludico dell’immagine stessa, che riflette a sua volta la volontà di creare un cinema di sperimentazione irridente, di mixages ironici e giocosi.

La sperimentazione è funzionale a un progetto di produzione di irrazionalità, le immagini si mescolano grazie ad esperimenti tecnici differenti, creano un gioco ironico che si sviluppa senza regole prestabilite. E’ l’idea di un cinema ludico, di un cinema “dell’istantanea” che pare riprendere la lezione (tardo) dada di Entr’acte di Picabia e di Clair, quando Clair riconosceva a Picabia il merito di aver “liberato le immagini dal dovere si significare”.

E’ un cinema dell’ibridazione che, mescolando regimi, tecniche e procedimenti diversi, costruisce una nuova forma sperimentale.

A una sguardo critico retrospettivo, La Galante avventura del cavaliere dal lieto volto resta come uno dei film più riusciti dell’avanguardia italiana, insieme a La verifica incerta di Baruchello e Grifi, a Umano non Umano di Schifano e a Dei di De Bernardi.

Il rapporto con l’avanguardia storica è in ogni modo fondamentale nelle opzioni progettuali di Nespolo. Nespolo vuole inventare una sorta di museo vivente immaginario in cui il recupero del passato è “anche un prolungamento verso l’avvenire di un’idea che non cessa di meravigliarci” (Janus).

Se il gesto paradossale e la volontà irridente costituiscono la struttura di fondo della poetica del primo Nespolo, influenze di matrice surrealista diventano prevalenti in altri film come Tucci Ucci e Le porte girevoli. Tucci Ucci (1968) trasforma un micro-evento irrilevante (la preparazione di un piatto di frittelle) nel pretesto per un’avventura nel meraviglioso quotidiano, in cui piccoli frammenti di magico e di onirico irrompono inattesi a cambiare le cose e i gesti: la farina si trasforma in bianche colombe: le uova “suonano come bizzarre chitarre” (Nespolo).

Non si trattava di avventure compiute nell’universo del sogno, ma di piccole tessiture di analogie magiche, di improvvise apparizioni vagamente metafisiche in cui si esercita insieme un gioco della fantasia e un allargamento dell’immaginario.

Sono esperienze di cinema in cui l’improvvisazione e l’automatismo parziale del cinema di Man Ray si caricano di nuove risonanze.

Non a caso a Man Ray Nespolo ritorna nel 1982, dopo alcuni anni di silenzio, per integrare lui stesso un progetto dell’artista dada e completare un’opera in progress. Le porte girevoli è un film ispirato da una nota di Man Ray e si presenta come un’estensione ulteriore di un insieme di operazioni creative dell’artista americano, realizzata da Nespolo con un atteggiamento mimetico di identificazione.

La base di partenza è un’opera di Man Ray (Revolving Doors) effettuata in più fasi e articolata nella produzione di dieci collages, dieci litografie e dieci dipinti su tela dedicati ai medesimi temi. Nespolo riprende un progetto di film dello stesso titolo presente nei diari di Man Ray e fa quello che l’artista americano non ha fatto, sostituendosi a lui, diventandone una figura vicaria, un sosia creativo, un erede operativo.

In una camera da letto, tutta rigorosamente in bianco e nero e arredata con oggetti di affezione, fotografie e quadri di Man Ray, una donna nuda stesa sul letto sfoglia un libro e lo sporca con il pomodoro che sta mangiando. Un uomo (“l’artista”) arriva all’improvviso, ha un piccolo scontro con la donna, la bacia, guarda ancora con lei il libro dove trova un altro pomodoro che schiaccia sul viso della donna.

L’artista scompare e la donna, avvolta in un lenzuolo rosso, si alza improvvisamente e si drappeggia come un manto vermiglio, mentre tutta la camera prende fuoco. Le immagini della donna a letto sono inframmezzate dalla visione di dieci disegni di Man Ray (intitolati appunto Revolving Doors), che si disgregano e si aprono come un puzzle.

Nespolo fa rivivere alcune figure dell’immaginario del cinema di Man Ray (la modella, l’artista, gli oggetti d’affezione filmati, la donna nuda e il libro: si pensi al piede di una donna che schiaccia un libro aperto in L’etoile de mer), in un’operazione che ricrea un universo di citazioni nel quale ogni elemento, ogni oggetto, è in fondo una copia che rinvia ad altro, è un simulacro che vive di riflesso.

Così il film si inserisce nel piccola-grande Museo dei Musei dell’Arte del Novecento, che Nespolo costruisce da anni, allargando e sistematizzando i suoi riferimenti ai linguaggi e alle figure dell’avanguardia. Ma il film è anche una rivisitazione del gusto per le parabole fantasmatiche, le avventure oniriche e le improvvise irruzioni di irrazionalità proprie della ricerca francese fra dada e surrealismo.

Tessiture analogiche, microggettivazioni e immagini inconsce, aperture all’illogicità del sogno sono qui rielaborate e cadenzate in una riscrittura elegante, doppia, simulacrale dell’immaginazione dada e surrealista. L’attenzione costante all’universo dell’arte caratterizza anche la seconda linea di sviluppo dell’attività cinematografica di Nespolo. Dal 1967 egli comincia infatti una piccola ma significativa serie di film dedicati alle opere e ai protagonisti della ricerca artistica torinese.

Sono brevi lavori che isolano un momento particolare e propongono ritratti anomali dei personaggi e delle loro opere. E’ una prospettiva di inserzione arte/cinema, sviluppata dallo stesso underground americano (ad es. nei film di Marie Menken, di Andy Warhol, di Jonas Mekas), che Nespolo riarticola secondo due logiche specifiche: da un lato la ricerca visiva sull’opera dell’artista, dall’altro la trasformazione dell’artista in performer anomalo e la registrazione di una sua prestazione.

Neomerzare (1967), dedicato al lavoro di Mario Merz, è una rigorosa avventura della luce e dell’ombra dominata dalle configurazioni iridescenti del neon. Le opere di Merz non sono riprese e documentate, ma interpretate dallo sguardo selettivo della macchina da presa e rielaborate in funzione di un altro discorso espressivo, sviluppato da un altro artista. Nespolo isola elementi di luce, luminosità, filamenti di colore e li compone nell’orizzonte visivo come se fossero graffiti di una composizione astratta. In questo modo crea un itinerario di iscrizioni luministiche che delinea una versione moderna dell’Absolute Film. Nespolo usa i neon di Merz come supporto visivo di un’avventura nella luce e nell’ombra che resterà del tutto anomala nel suo lavoro cinematografico.

In Boettinbianchenero (1967), invece, la macchina da presa si aggira liberamente all’interno dello spazio espositivo, cattura indifferentemente opere e persone. Boetti e visitatori più o meno anonimi, disegna forme visive particolari insieme con casualità e determinazione. Nespolo registra un rituale, fissa con la camera una cerimonialità fredda, nella quale i personaggi dell’arte sembrano rivelare una natura segreta di fantasmi.

A Pistoletto è invece dedicato Buongiorno Michelangelo (1968-69), piccolo poema del gratuito in cui la macchina da presa segue nel tessuto urbano Pistoletto e una enorme palla formata da giornali pressati. E’ un viaggio ironico e irrazionale, che propone una nuova lettura della passeggiata assurda di origine dada e surrealista.

Dieci anni dopo con Il faticoso tempo della sicurezza (o Lo spaccone) del 1978, Nespolo trasforma se stesso in un performer particolare, dedicandosi un film che è il ritratto dell’artista come giovane signore, educato, pulito e con la passione del biliardo. Laddove Duchamp giocava a scacchi, Nespolo, più moderno e più popolare, esercita la sua arte nel biliardo, sino a fare del gioco del biliardo un’opera d’arte o una metafora pop dell’attività dell’artista. Giocato con ironia.

Il faticoso tempo della sicurezza, oscilla tra una citazione del film di Rossen con Paul Newman e alcune piccole operazioni di detournement sperimentale; il commento sonoro è affidato a una voce off del tutto incomprensibile, che è un testo tedesco registrato al contrario. La fase successiva dell’attività cinematografica di Nespolo apre ad una nuova dimensione testuale, caratterizzata da una programmazione più precisa dei sistemi comunicativi e dal ricorso a componenti narrative e rappresentative rivisitate in forme anomale. E’ una fase di sviluppo delle strutture linguistiche del cinema e di opzione per nuovi intrecci tra racconto e figurazione artistica.

Nei primi film di Nespolo le persone, gli eventi, gli oggetti, erano mostrati come realtà in sé e non avevano bisogno di articolazioni discorsive particolari: erano entità inscritte in un regime di presentazione delle cose stesse, secondo una logica che caratterizza alcune esperienze particolari dell’avanguardia.

Nei nuovi film di Nespolo realizzati tra il 1972 e il 1976, persone, cose, eventi sono inseriti in una dinamica di rappresentazione e di micronarrazione, entrano in un orizzonte comunicativo segnato da codici e regole consolidate. E’ che la rappresentazione e la narrazione di Nespolo restano del tutto anomale, ma lo schema di riferimento e il sistema di comunicazione e di significazione sono cambiati rispetto alle prime sperimentazioni. Alla gratuità intrinsecamente provocatoria del gesto finalizzato a produrre non senso, subentra la costituzione di percorsi discorsivi più articolati e meno eversivi.

Con-certo rituale (1972-73) costituisce il momento di passaggio verso un cinema di narrazione anomala (“eccentrica”, la definita Fagone). Uno spazio popolato di personaggi stravaganti e decorato da oggetti improbabili sembra proporre una versione europea e iperfigurata della factory newyorkese d Andy Warhol. I gesto, le azioni, le espressioni sono astratti dall’economia quotidiana, inscritti in un orizzonte di rappresentatività allusiva.

Sembrano rituali vuoti, forme di un teatrino grottesco e sofisticato al tempo stesso, cerimonie che non conoscono neppure la propria ragione intrinseca. La scena degli artisti, evocata con Baj e Piacentino, pare sul punto di rilevare una vacuità segreta, una frustrazione radicata. Dai gesti non escono opere, ma solo vaghi progetti senza costrutto, manie soggettive che non comunicano nulla.

Il teatrino stravagante dell’avanguardia non sa più trovare un ubi consistam, stretto tra un’alterità che pare essere diventata afona e una comunicazione codificata. In Con-certo rituale Nespolo sembra imboccare la via di un cinema cerimoniale, ritualistico e mascherato, ampiamente sviluppato all’interno dell’avanguardia americana ed europea (da Kenneth Anger a Jack Smith e a Warhol, da Markopulos a Stéphane Marti, a Klonaris e Thomadaki).

L’intero rappresentativo si fa più forte nei due film più impegnativi realizzati a metà degli anni Settanta, che sono, in fondo, anni di ritorno all’ordine in cui lo spirito dell’avanguardia si stempera in articolazioni meno radicali.

Un Supermaschio (1975-76) è il segno esemplare del nuovo registro del cinema di Nespolo. Il riferimento a Jarry connota subito l’atteggiamento di Nespolo, che vuole ancora dichiarare il suo legame con la cultura anticonformistica e trasgressiva senza tuttavia perseguirla nelle sue forme più estreme.

Jarry è un patafisico, un seguace di quella “scienza delle soluzioni immaginarie” con cui anche Nespolo civetta per qualche anno, insieme ad altri amici come Baj. Lo spirito ironico, paradossale, graffiante Jarry, la sua volontà di giocare con i valori riconosciuti per rivelarne l’inconsistenza e la stupidità intrinseche, caratterizzano anche molte operazioni di Nespolo. Il film è tuttavia più sfaccettato, più stratificato e probabilmente anche meno aggressivo dei testi di Jarry.

Lo spazio della rappresentazione è ancora lo scenario di una factory warholiana rivisitata da Nespolo e trasformata in una sorta di palcoscenico erotico. Un gruppo di personaggi-maschera, privi di ogni connotazione quotidiana, ruota attorno al Supermaschio e alle sue abitudini. E’ un teatrino erotico che ha naturalmente un andamento da cerimonia, cui la sessualità pare del tutto estranea.

Nespolo costruisce uno scenario rituale, arricchito da citazioni e da allusività che sottraggono metodicamente credibilità alla rappresentazione. Il film si configura gradualmente come una sorta di apologo, di piccolo conte philosophique che parla di erotismo per parlare di arte.

Protagonista autentica del film è infatti una grande testa di Beuys in cartapesta dipinta che, nel rievocare una delle figure più significative dell’arte degli anni Sessanta e Settanta, propone una riflessione paradossale sulla dimensione dell’artistico. La passione improvvisa del Supermaschio per la testa di Beuys è un opzione irrazionale e incontrollata, che spezza le relazioni intersoggettive e diventa un’ossessione esclusiva. Il rapporto con l’arte appare dominato da Eros e Thanatos, diventa un’esperienza totalizzante, assorbe ogni incertezza e ogni pulsione, conducendo infine il protagonista alla morte.

Nespolo gioca con la parabola del Supermaschio, finge un’attenzione prevalente al teatrino erotico, costruisce un freddo scenario di microperversioni senza alcuna partecipazione emotiva (optando in questo per lo stile Warhol, invece che per i modelli di Anger e di Jack Smith). Ma poi il film appare dominato dalla figurazione grottesca e simbolica della maschera di Beuys, sorta di grande opera pop che dà alla rappresentazione un carattere feticistico e simulacrale.

L’apologo sulla radicalità dell’esperienza artistica si colora di tinte paradossali, creando un’atmosfera grottesca e ambigua che sottrae ogni drammaticità e ogni verosimiglianza agli eventi.

Anche Andare a Roma (1976) opera nella prospettiva di un nuovo modo di raccontare, ma invece di accumulare accadimenti, azioni singolari e improbabili, è costituita di vuoti e di tempi morti, sulla base di una scelta di minimalismo narrativo. Qui il lavoro di Nespolo va nella direzione di una scrittura dell’ellissi, di una struttura allusiva che ha posto il silenzio al suo centro.

Nespolo costruisce una sorta di narrazione a-centrata, fatta di digressioni piuttosto che di dinamiche concrete. La scelta sperimentale non è abbandonata ma assume articolazioni differenti, meno intense e tuttavia correlate alla ricerca degli anni Settanta. La sperimentazione cerca nuove prospettive, procede attraverso forme narrative anomale.

In Andare a Roma il mondo descritto appare dominato dall’insignificante, spesso raddoppiato attraverso la mediazione video. La rappresentazione dell’agire dei personaggi passa attraverso il filtro televisivo, è insieme allontanata e moltiplicata dalle tecnologie elettroniche dell’immagine. La realtà e la simulazione della realtà si mescolano e si fondono.

La prospettiva della narrazione allusiva e della pluralizzazione simulacrale dell’immagine va ormai verso una linea di ricerca e di rappresentazione della contemporaneità profondamente diversa dall’aggressività provocatoria dello spirito dell’avanguardia.

Lo sbocco logico di uno sviluppo realizzativi siffatto è un cinema di rappresentazione del mondo di simulacri in cui siamo immersi, all’interno di più consolidati sistemi comunicativi. Le ultime prove di Nespolo hanno in fondo la consapevolezza delle difficoltà della ricerca cinematografica indipendente in un’epoca segnata sempre di più dall’invasione della televisione e del video. Nespolo, che ha sempre saputo giocare con le forme visive della cultura popolare, sembra voler affermare un distacco, sottolineare una posizione di alterità. La sua opzione resta individuale e colta, rifiuta l’appiattimento sulla standardizzazione comunicativa, continua a studiare meccanismi di citazioni e di confronto con la tradizione pittorica e iconografica del Novecento.

In questo contesto di chiusura delle prospettive di ricerca, trovano allora un senso e una collocazione anche simbolica e precisa le ultime opere cinematografiche di Nespolo, realizzate l’una nel 1982 e l’altra, dopo dodici anni di silenzio, nel 1994: sono in fondo e nello stesso tempo la riaffermazione dello spirito dell’avanguardia e la verifica delle sue aporie.Le porte girevoli, come abbiamo già detto, è in fondo un omaggio alla tradizione (d’avanguardia) delle forme artistiche del Novecento, la scelta per la costruzione di un Museo d’Arte come grande universo della simulazione.

Time after Time (1994) è invece la ripresa gratuita di un piccolo gioco mobile, che si disloca sulle superfici dei quadri di Nespolo e sull’immagine dell’artista stesso. Un pupazzetto di gomma, snodato e colorato, si muove con capriole ritmiche, attratto dalla forza di gravità lungo le superfici colorate delle opere in legno di Nespolo, percorre spazi molteplici, si avventura ora in cromatismi brillanti e chiari, ora in aree più scure e opache. All’inizio e alla fine del suo girovagare muove lentamente su uno specchio che riflette l’immagine di Nespolo. La sua mobilità condizionata ci fa visitare un universo che appartiene totalmente all’artistico, è un tramite che disloca lo spettatore negli spazi della pittura.

Anche un gioco così apparentemente infantile ha l’arte come campo d’estrinsecazione, spazio di esercizio. E il pupazzo stesso, anche se più colorato, ricorda ancora i piccoli burattini lignei stilizzati di Man Ray, che compaiono in creazioni d’arte come in film (Emak Bakia e Le mystère du château des dès) e, più indirettamente, il disegno di Charlot, animato come un pupazzo comico meccanico da Léger in un altro grande film d’avanguardia (Ballet mécanique).

Il ricorso a un gioco infantile diventa ancora una volta per Nespolo il passaggio per una tessitura visiva appena ironica, che attraversa il territorio dell’arte in un nuovo omaggio assolutamente particolare.

E forse il cinema di Nespolo, nella sua ostentata fedeltà all’avanguardia nelle sue forme istituzionali come in quelle più provocatorie, costituisce una sorta di singolare museo artistico, in cui si realizza un variato e molteplice inveramento della più importante metapoetica del Novecento, l’infinita tradizione del nuovo.