CINEMA Testi critici Vittorio Fagone

Vittorio Fagone

Quando Jean Vigo scriveva per Zéro del conduite, “Frapper la balle, n’importe où, n’importe comment, n’importe quand” indicava, attraverso una massima sportiva, il ritmo che doveva animare lo scenario scandaloso, il veloce movimento del gioco delle situazioni, l’attacco continuo all’ovvietà dell’immagine, a ogni risvolto patetico.

Il riferimento a Jean Vigo, nel caso di Ugo Nespolo vale in due direzioni. Tutto il lavoro di artista di Nespolo, cinema compreso, frappe la balle: freneticamente, da ogni angolazione, con ogni possibile tecnica. Il colpo, e l’attacco, è portato alla immobilità delle vecchie e “novissime” vedute, all’arte come luogo di private devozioni, all’esoterismo dei gesti stereotipi di un’avanguardia “comodamente seduta” che non ha più ironia e scatto, capace ormai solo di compiaciute occhiate dentro specchi generosi.

La strategia che Nespolo mette in atto in questa operazione è la messa a nudo dei meccanismi del gioco, la proposta di una serie di mosse aperte verso possibili contromosse, la valutazione degli scarti tra le due condotte di gara come componenti ineliminabili di una partita a due. Per Nespolo il gioco è ancora immagine del mondo, secondo la nota tesi di Fink, e anche tentativo di spostare l’irreversibilità di ogni operazione estetica dentro un campo di più vive, e precarie, sollecitazioni sociali.

La seconda possibilità di riferimento a Vigo riguarda più propriamente il cinema. Nespolo ama trattare i personaggi dei suoi films con una evidenza paradossale sino al limite della caricatura, gioca sui miti e emblemi con una ironia acuta e violenta, ama provocare situazioni imbarazzanti, contravvenire all’ovvietà in ogni forma codificata, e anche, elemento stilistico non secondario, mimare con un ricalco intelligente un modo particolare di far cinema per azzardi e verifiche simultanee che è stato proprio della prima avanguardia: un’avanguardia nella quale risulta oggi impossibile distinguere quanto appartiene al solo cinema, quanto alla rapida evoluzione e espansione delle arti visive.

Superata la metà degli anni Settanta, le distinzioni dentro lo spazio e la pratica del cinema hanno un senso diverso. Esiste un cinema industriale, d’”intrattenimento”, destinato a una platea vastissima, che privilegia lo spettacolo e si sviluppa nei modi e nei tempi di un “racconto per immagini” e che ha i suoi autori e prodotti “eccellenti”, ed esiste un cinema di ricerca per il quale lo spazio, e l’utenza, del cinema è ogni volta da formulare, l’obbligo dei “cento minuti” di spettacolo non vincolante, la mimesi realistica di una evidenza credibile, per tranches o seguante congruenti, non da rispettare come norma assoluta, come unico criterio di significazione.

L’altro cinema sperimenta la possibilità di produrre immagini in espansione non rettilinea, come sosteneva più di cinquant’anni fa Jean Cocteau, di stabilire criteri di ordinamento delle immagini nel tempo che consentano altri, non chiusi, modelli di lettura: letture trasversali, di “senso”. In questo secondo spazio del cinema il lavoro degli operatori visivi, degli artisti, ha una particolare rilevanza.

Una linea si può dire ininterrotta lega le esperienze del cinema futurista e surrealista a quelle realizzate dagli artisti concettuali e del comportamento. Il cinema come una realtà linguistica aperta e specifica sollecita gli artisti degli anni Sessanta che forzano il limite della superficie dipinta; alla fine degli anni Sessanta, dopo il ’68, acquista anche una connotazione sociale: il cinema degli artisti esalta la virtualità e la duplicabilità dell’immagine, contraddice il feticismo dell’opera-merce.

Nespolo ha nel suo cinema ripercorso molti luoghi storici di queste ricerche e non sarà perciò inutile segnare alcuni sommari caratteri. Il cinema futurista e il cinema surrealista (Vie futuriste e i films di Man Ray e Picabia) considerarono essenziale la partecipazione degli artisti stessi tra le figure del film: da qui un potenziamento dell’azione del film come gioco creativo e anche un più stretto rapporto arte-vita secondo uno degli assiomi fondamentali di tutte le avanguardie storiche. Nel cinema che viene invece dal Bauhaus è la qualità ottica dell’immagine che è analizzata e potenziata (Eggeling, Richter, Moholy-Nagy).

Altre componenti giocano nel cinema del dopoguerra. La lezione del New American Cinema nasce in un’area che gli artisti frequentano (Maya Deren, Willerd Maas e Marie Menken, Kenneth Anger). E’ un cinema che recupera la verità dell’occhio cinematografico, la sua immensa capacità espressiva e linguistica. Film-makers e artisti per anni lavorano nalle stessa area: con la stessa libertà esplorano i confini e la possibilità del mezzo cinematografico.

Nella situazione italiana degli anni Sessanta si riproduce la stessa condizione: una stessa cooperativa tiene artisti e film-makers, cerca spazi di diffusione nuovi, propone nuove metodiche di scritture cinematografiche, incisive e dirette. Per gli artisti però il cinema è uno spazio complesso da verificare: qualcuno lo considera un prolungamento del proprio campo di lavoro sull’immagine; i più attenti (Loffredo, patella, Baruchello, Schidano) ne saggiano l’autonoma consistenza, la diretta capacità di definizione.

Così quanto, nei primi anni Settanta, il cinema dei cineasti indipendenti si trincea dentro una difensiva asserzione di luogo politici come segnali e immagini non più trasferibili, il cinema degli artisti – e non solo a livello italiano – acquista coscienza di poter operare secondo una specificità che non lo distanzia dal campo delle ricerche visuali.

Questa specificità consente di superare una doppia serie di equivoci: una condizione di cinema minore, di cinema derivato, non di progetto e definizione; e all’opposto, un cinema come appendice a una opera diversamente e più propriamente formulata nella determinazione del campo delle arti visive. Finalmente ci si rende conto che l virtualità dell’immagine cinematografica non è un limite, essa può acquistare spessore e trasparenza di significati oltre che movimento e durata. Il cinema non è più fuori dal campo dell’operatore visivo: è una pratica specifica nella quale è possibile investire azione, immagine, progetto dentro la stessa misura.

Ugo Nespolo ha realizzato tra il 1966 e il 1977 undici films. Questi possono essere raggruppati, cronologicamente e per modelli linguistici, in quattro serie progressive.

La prima, di esplorazione, comprende i primi films realizzati (Grazie Mamma Kodak, 1966; Le gote in fiamme, 1967). In queste opere Nespolo s’impegna in un analisi dell’immagine cinematografica, degli effetti dell’ordinamento di due immagini (somma, sottrazione, rafforzamento, esclusione, senso e mutamento di senso), delle accelerazioni, delle accumulazioni di reperti visivi dentro una unica immagine risultante. E’ una esercitazione che conduce a risultati di buona efficacia, a un cinema di rapide effuse suggestioni dove è difficile stabilire un confine tra l’occhio malizioso dell’artista e l’ingenuità (presunta) della macchina da presa, delle sue veloci rincorse.

La seconda serie potrebbe definirsi del teatro bizzarro e stravagante.

Il film più significativo di questa serie è La galante avventura del cavaliere dal lieto volto (1966/1967). Girato nella campagna lombarda il film mima un racconto dissacrante che spiazza in direzioni imprevedibili “la piccola vedetta lombarda” deamicisiana, mette in scena Baj, Fontana, Volpini in atteggiamenti che ricordano le situazioni dei films surrealisti.

L’artista è qui nel gioco, è persona del gioco, il cinema si muove per immagini taglienti, accostate con brusca tensione: figuratività e operatività risultano bilanciare dentro immagini vistose nelle quali Baj e Fontana sono compiutamente riconoscibili. Alla stessa matrice surrealista è da riportarsi Tucci-Ucci (1968).

La preparazione di una frittella diventa occasione di una catena di eventi magici, operazione che si dissolte in gesti irrealizzabili, in un lungo rituale alchemico casalingo. Nello stile surrealista è l’apparizione del personaggio stravagante, l’araba, la dissoluzione del gioco: la frittella divorata un attimo prima di essere servita. Il ritmo del gioco e il ritmo dell’assurdo si compongono in questo teatro filmico: il movimento delle immagini, ma più il significato che queste assumono, può interpretarsi come un mobile e continuamente aggregante puzzle.

Una terza serie di notevole interesse è costituita dai films dedicati all’opera e all’ambiente degli artisti d’avanguardia a Torino. Si sa che Torino è stata la capitale del boom economico italiano e che insieme alla più grande industria nazionale ha coltivato, negli anni d’oro, l’avanguardia artistica più vivace e aggressiva.

Ovviamente fra i due termini esiste una relazione non causale. Nespolo ama riprendere le opere dell’avanguardia torinese nel luoghi deputati al “piccolo consumo”, nelle gallerie. Le immagini sono documento di opere interessanti e registrazioni di un ambiente non solo fisico ma sociale, con i suoi personaggi, le figure obbligate di una società chiusa.

A questa serie possono ricondursi Neonmerzare, 1967, Boettinbiacoenero, dedicati a Merz e a Boetti, e, con una più ampia autonomia, anche A.G. 1968, una lunga registrazione cinematografica di Allen Ginsberg che parla, suona, vive. Questo film, raccolto come documento di un periodo di grandi mutamenti, Nespolo non si è mai deciso a montarlo. Ancora nella serie può considerarsi, ma solo per una certa parte, Buongiorno Michelangelo, 1968, dove in un caffè di via Roma artisti e critici del ’68 (Trini, Palazzoli, Pistoletto, Zorio, Sperone) si muovono come dentro uno strano balletto.

E’ da questo film che inizia in effetti la narrazione eccentrica, una serie che si andrà definendo con una incisività sempre più marcata nel films degli anni Settanta e alla quale sono da ricondurre i tre films Concerto rituale, 1972-1973, Un supermaschio, 1976, Andare a Roma, 1977. Su questi ultimi films conviene dare qualche indicazione più dettagliata perché essi forniscono un ritratto riconoscibile dell’opera in cinema di Nespolo.

L’ultimo dei films girati da Nespolo negli anni sessanta, Buongiorno Michelangelo contiene un racconto obliquo. Pistoletto che si è sbarbato di fronte a una lamiera specchiante - la specificità del manufatto artistico è ricondotta a una dimensione quotidiana – porta a spasso per Torino un’enorme palla.

Questo personaggio “fuori norma” mette in crisi una serie di percorsi e di relazioni ovvie. I percorsi consueti del quotidiano. L’enorme palla schiaccia abitudini mentali, comportamenti prigionieri contro i muri ordinati di Torino, irrita le automobili. Anche quando è ferma, fa scandalo. Quando scompare dentro un autobus la città ritrova il suo passo, il racconto di Nespolo è anche una parabola rivolta al lavoro dell’artista come gioco e scoperta di nuove relazioni.

In Concerto rituale il gioco delle immagini per sommatoria e brusche sottrazioni stabilisce un ritmo narrativo veloce e trasmutante come in una sorta di movimento circolare. In questa giostra sfrenata si muovono riconoscibili i personaggi di una avanguardia internazionale ormai ridotti a stereotipi. Il gioco di Nespolo si è incattivito, diventa tagliente, ogni personaggio è colto in un attimo di riconoscibile fragilità e personale failure. Ideologie e emblemi diventano giocattoli. Un erotismo ambiguo e sfrenato lega i diversi personaggi.

La dinamica del film che si muove per rapide associazioni, più che per sequenza, ricorda il sogno e del sogno ha – non si dimentichi l’equazione che Robert Desnos stabiliva tra sogno e film nel 1926 – l’affiorante ambiguità erotica.

Un supermaschio spinge ancora questa tensione erotica verso un culmine paradossale: anche la trasgressione ha il suo codice. E’ impossibile sposare l’oggetto di un amore feticistico (una enorme testa di ìBeuys), riportarlo ad una dimensione domestica. Nespolo parte dall’analisi di una giornata banale per arrivare alla elaborazione di una fantasia ossessiva che supera la pratica di una perversione ormai normalizzata e socializzata. Oscillando tra le immagini patetiche e desideri sfrenati, il racconto eccentrico di Nespolo segna i luoghi di una realtà violenta anche contro l’immaginazione, contro i più liberi fantasmi.

La qualità ottica della scena del supermaschio sottolinea il carattere onirico di una fantasticheria, che non è solo desiderio, ma anche paura e rivolta.

L’ultimo film di Nespolo Andare a Roma è certamente il più complesso. Esso conserva una capacità acuta di definizione delle immagini, e i continui ribaltamenti tra immagini lette dalla realtà e immagini lette da u cinescopio televisivo ne accentuano la fluidità.

Il film è la storia di un atto gratuito, proprio nel senso di Gide, che si risolve in un atto mancato (nel senso di Freud). Un artista sogna di riscattare una vita senza traguardi, senza risposta, attraverso un gesto clamoroso ed assurdo ma liberatorio: andare a Roma, uccidere il papa.

Nespolo racconta nel film come nella pigra estate di una grande città del Nord, quell’idea assurda coaguli, diventi un progetto da preparare con cura in tutti i dettagli, da coltivare in un segreto assoluto. Il film si carica di questa tensione. Si popola di oggetti minacciosi, di prove, di rimandi simbolici. Il personaggio vive questa sua attesa accanto a una donna incinta. Anche la donna sformata appare come un’immagine dilatata di cui è difficile cogliere il senso: diventa un enigma, una sfinge domestica, impenetrabile.

In questo percorso il tempo ossessionato si espande, moltiplica i suoi rinvii. Quando scatta la decisione, un ritardo, un atto mancato, manda in fumo il progetto. L’artista che ha sognato il grande colpo arriva tardi all’aeroporto. Nel rumore che lo soverchia scopre che a Roma “fa troppo caldo”, che non è un gesto che può dare senso a una esistenza.

La dimensione visiva nella quale si incrociano senza mai entrare in dissolvenza, persone, immagini rinviate o immagini dipinte, opere-immagini, costituisce un continuum precario e mobile. Il tempo che Nespolo registra si dilata fino a provocare la distorsione di ogni evidenza.

La narrazione sembra bloccare un prima e un dopo: ogni gesto per quanto chiuso acquista alone, non ha contorni, non ha risoluzione. Chi guarda il film si sente coinvolto in una partita difficile. E’ chiaro che Nespolo con questo film è a una svolta.

Egli vive come diceva Artaud “au deça des images” con la capacità di trasformare un ricalco della realtà in un discorso. Per i semeiologi del cinema questo vuol dire la capacità di dar significato.

Il cinema di Nespolo è oggi lì. Non ha rinunciato alle accumulazioni di una storia d’artista, mette a profitto una grammatica visiva sottile e determinata per dar corpo a sfuggenti e oblique narrazioni (o moderne iconologie).