CINEMA Cinema dentro e fuori

Ugo Nespolo

Cinema dentro e fuori

Laggiù, in America, mi assicuravano che si trattava di mettersi contro Hollywood, di combattere o meglio di ignorare il cinema ufficiale, quello industriale insomma e di rivolgere l’obbiettivo della camera verso se stessi, dentro se stessi, in una sorta di animoscopia totale.

Devo dire che “loro” si erano messi d’impegno già da alcuni anni con una serietà “professionale” (termine aborrito in quel contesto) in un compito che a molti pareva velleitario o quanto meno ingenuo e troppo facile.

Nella seconda metà degli anni sessanta la cultura americana “invadeva” il vecchio continente con i suoi nomi in John, Jack, Bob, Roy, Andy e tanti altri, paradiso degli esterofili nostrani pronti ad accettare in toto quello che il più grosso esempio di politica culturale d’esportazione veniva offrendo.

Così se il New american cinema riusciva ad imporsi anche al di fuori degli Usa, lo poteva fare solo grazie alla forza trainante dell’esperienza tardo action – painting, pop ed inizio minimal che in quegli anni venivano spinte fin nelle più modeste città di provincia.

Ma “questo cinema” è pur sempre stato considerato il figlio scemo della “grande arte”, un figlio minore e degenere senza possibilità di essere inquadrato, razionalizzato e soprattutto mercificato.

Per quanto mi riguarda devo dire, che i “miei personaggi” si misero all’opera con destrezza. Subito il Baj scattò veloce dinnanzi alla camera ed agitò con perizia consumata bandiere a tre colori sui prati del vergiatese in compagnia del sapiente (e paziente) Lucio Fontana a tentare con l’aiuto del Volpini una improbabile piccola vedetta lombarda. Allora pensavo ad una sorta di “teatro fotografico” pieno di improvvisazione e di materiali bizzarri.

Il tentativo è stato quello di approdare in un territorio magico ed in perenne, instancabile movimento, un gioco insomma in cui la razionalità era bandita per lasciare il posto ad un libero creare associazionistico, suono ed immagine, movimento e colore, senso e non senso.

La galante avventura del cavaliere dal lieto volto ed ancor prima Grazie mamma Kodak (1966-67) non avevano altra radice se non questa.

Sto pensando anche a Buongiorno Michelangelo che volendo potrebbe vedersi attribuire uno spunto alla Polański degli esordi.

Questa enorme palla di carta che viene fatta rotolare per le strade di una fredda Torino, quadrata ed in grisaglia, diventa un simbolico oggetto di assurda provocazione che può anche essere letta come vacua, gogliardica esibizione. Fatto sta che “l’elemento estraneo” si inserisce con cattiveria nel paesaggio qualunque della città, tra la gente che guarda allibita, senza capire.

Pistoletto spinge la palla, la gente lo segue per vedere “fino a che punto” o “perché”. E se la palla diventa un’enorme rosa, alla fine, allora siano alla follia ingiustificata… ma sono soltanto ipotesi. Nessuno si lascia più stupire, provocare, la scorza è spessa e serve per difendersi.

Il surrealismo non c’entra per niente ed in nessun modo; si tratta piuttosto di una lettura della realtà colta anche nei suoi aspetti paradossali, interni ed a volte inspiegabili.

Ma la lettura vera è quella soltanto dell’occhio critico. Una piccola cattiveria viene aggiunta senza pietà all’interpretazione delle cose.

Le foto polaroid in Con certo rituale; la testa di Beuys nel Supermaschio; la “cultura elettronica” in Andare a Roma. Il mio cinema è basato sull’eccesso, sul “di più”, sul “supplemento d’informazione”, una sorta di acculturazione casalinga dai contorni mobili. Ma le teorie sono soltanto teorie e lasciano il tempo che trovano.

E poi sono statiche come le parole, fredde e bugiarde.

Le immagini sullo schermo filano instancabili, si mostrano senza pudore, non temono la critica perché non si fidano di nessuno, tentano davvero e soltanto di far capire anche ai ciechi ed ai sordi che every filmaker is indipendent at heart.